N° 27429 - 10/02/2015 9:48 - Stampa - -

DISCUSSIONE DELLA SETTIMANA

Non è un Paese per professionisti Il modello di sviluppo italiano non può emarginare il lavoro autonomo intellettuale.

Di Gaetano Stella,Presidente di Confprofessioni

Senza usare tanti giri di parole, la classe politica italiana ha voltato le spalle ai professionisti e al lavoro autonomo intellettuale. Una scelta di campo miope e imprudente, destinata a vanificare qualsiasi ipotesi di crescita del Paese perché colpisce al cuore le nuove generazioni che hanno scelto di svolgere una attività professionale dopo un faticoso percorso universitario e post universitario, e ora si scontrano con la disillusione delle promesse mancate e con la frustrazione di non riuscire a costruire il loro futuro. Il futuro del Paese.

Anziché puntare sui talenti, sulle competenze e sulle idee più innovative del Paese, si preferisce mantenere la barra su obsoleti schemi politici che, sotto le mentite spoglie delle riforme, mirano soltanto a perpetuare gli errori del passato e a salvaguardare i privilegi di pochi eletti, senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi reali di un Paese che sta cambiando pelle, di affrontare i nodi di una realtà economico-sociale in piena ebollizione.

Il mondo delle professioni rappresenta un settore economico strategico in ogni angolo del mondo. La diffusione dei servizi professionali si colloca all’interno dei processi di ristrutturazione economica a livello globale caratterizzati, nei paesi a sviluppo avanzato, dal continuo ridimensionamento della produzione industriale e dall’espansione del terziario. Ma l’Italia sembra non accorgersene, anzi si ha spesso l’impressione di assistere alla pervicace volontà di ignorare i processi di sviluppo che regolano le economie più competitive e che si basano proprio sul capitale intellettuale. Da noi, invece, si guarda non senza un certo fastidio al lavoro autonomo e professionale, come se fosse una zavorra per la crescita del Paese, vero ostacolo alla restaurazione dello status quo.

Come si può spiegare altrimenti la raffica di provvedimenti legislativi che negli ultimi mesi hanno fiaccato le residue resistenze degli studi professionali? Come possiamo giudicare l’opera di chi con una mano toglie e con l’altra prende? Sul piatto della bilancia infatti pesano, da un lato, l’esclusione dalla cassa integrazione in deroga o il silenzio assordante sulle raccomandazioni della Commissione europea in merito al diritto dei professionisti di accedere ai fondi strutturali europei; dall’altro, incidono la stretta sul nuovo regime dei minimi, l’incremento della doppia tassazione sui rendimenti delle casse previdenziali private e dell’aliquota della gestione separata Inps, l’incremento esponenziale degli adempimenti richiesti ai liberi professionisti nell’esercizio della loro attività. Per non parlare poi di una tassazione erosiva che ha raggiunto livelli paradossali e di una burocrazia invasiva che grava sia in termini di adempimenti sia in termini economici solo sulle spalle del professionista.

Non è il trito e ritrito cahier de doléances dei soliti professionisti con la pancia piena, ma un atto di accusa serio e circostanziato che condanna l’ignoranza e il pressapochismo di una intera classe politica verso un settore economico che ha tutte le carte in regola per competere (ad armi pari) sul mercato e può contribuire alla ripresa del Paese, a cominciare dal rilancio dell’occupazione giovanile che ha raggiunto livelli non degni di un Paese civile e, per inciso, da questo punto di vista il potenziale degli studi professionali è ancora notevole.

Al di là delle ripercussioni sociali e economiche che tali scelte politiche scaricano sui giovani e sulle loro famiglie, troppo spesso si tendono a trascurare le richieste di un mercato che per sopravvivere ha cambiato paradigma. Agli studi professionali vengono richieste sempre nuove competenze e profili innovativi, molti legati alla digitalizzazione e alla informatizzazione. Basterebbe un piccolo sforzo, non necessariamente mentale, per comprendere come questo processo irreversibile abbia imposto ai datori di lavoro-professionisti un cambio di passo per recuperare efficienza nella struttura e nell’organizzazione del lavoro, ma anche per creare società di capitali e multidisciplinari; costruire network e contratti di rete con le imprese; sviluppare nuove competenze e specializzazioni in grado di reinterpretare il lavoro professionale in funzione delle nove esigenze del cliente; gestire in modo imprenditoriale la propria attività, come ha sottolineato anche il gruppo di lavoro europeo sulle libere professioni, previsto dal Piano d’azione per l’imprenditorialità 2020 della Commissione europea.

Per competere sul mercato il professionista ha colto l’opportunità di imprenditorializzarsi, facendo leva su strumenti di marketing e comunicazione, sviluppando maggiori competenze sui temi della finanza e dell’internazionalizzazione, delle nuove tecnologie digitali, ma anche sulle questioni etiche e sociali e su quelle assistenziali e previdenziali. Numerosissimi studi in Italia si sono già riposizionati per reinterpretare il loro ruolo di intermediari qualificati nei rapporti tra la pubblica amministrazione, le imprese e i cittadini, senza alcun sostegno politico ed economico che all’alba del 2015 rimane ancora riserva esclusiva di un modello produttivo che non crea ricchezza per il Paese e che continua a bruciare posti di lavoro.