Come ogni mattina, anche oggi mi sono svegliato presto; per dovere, e per abitudine, scorro il consueto promemoria, osservo intorno a me e vado avanti. Mi ritrovo così nel mio studio, nella stanza di lavoro; una mia fotografia di vent’anni fa, appesa alla parete, restituisce un’immagine del passato: io nel ghiacciaio del Monte Bianco, con zaino sulle spalle e atteggiamento fiero, di colui che esplora la vita, con tutte le sue meraviglie.
Avevo ventisette anni, laureato in ingegneria, abilitato all’esercizio della professione, servizio militare assolto. La montagna, la sua vetta, lo spazio rarefatto del ghiacciaio, l’acqua dei ruscelli, rappresentavano un premio per i normali impegni di studio e di lavoro; i miei genitori potevano essere orgogliosi di me, i loro sacrifici erano stati onorati, e anch’io ne ero fiero.
Per me, che venivo da un piccolo paese di provincia, arrivare a Roma era già una conquista. Andai ad abitare in un piccolo appartamento del quartiere Aurelio – lontano dall’università – che condividevo con mio fratello. Mi alzavo alle cinque e dieci del mattino (prendevo tre autobus) per evitare il traffico di Roma e per giungere in tempo all’università. Con i compagni di corso ci imbucavamo in qualsiasi spazio libero, per ripassare le lezioni, in attesa della riapertura delle aule per le esercitazioni del pomeriggio. Ricordo un giorno in cui, insieme ad un amico calabrese, per la preparazione all’esame scritto di “Fisica Uno”, ci rifugiammo in un’aula della facoltà di Economia e Commercio, adiacente alla sede di ingegneria di Via Castro Laurenziano. Un’aula spaziosa occupata da poche persone, nelle prime file verso la cattedra; noi eravamo nell’ultima fila, distaccati dal gruppo di studenti. Erano circa le tre del pomeriggio quando, nel silenzio delle persone presenti, udimmo una voce: “Ehi voi, lassù! Vi faccio passare la voglia di disturbare. Uno di voi venga alla lavagna!” Era la voce del professore di “Matematica Generale” che si accingeva ad iniziare la lezione. Non ci eravamo accorti della sua presenza, mentre ripassavamo tra di noi gli appunti di fisica. Andai alla lavagna, senza dire al professore che non ero uno studente della facoltà di Economia. Mi fece risolvere un limite, una derivata e un’integrale e poi disse: “Va bene, vai a posto!” Ci furono altri episodi simili, nelle aule di Economia e Commercio, in quelle di Biologia e in altri luoghi che utilizzavamo esclusivamente per lo studio. Spesso ci ritrovavamo a studiare all’interno di un vecchio pulmino “Fiat 900″, quello dal profilo tronco e bombato.
Ricordo le lotte politiche per il diritto allo studio. Mi impegnai, in prima persona, per evitare l’introduzione del numero chiuso, contribuendo a raccogliere le necessarie firme all’ingresso delle aule di Via Castro Laurenziano e di Via Scarpa. Ancora oggi credo fermamente che qualsiasi attività, anche quella dello studio, vada sperimentata sul campo, con una selezione meritocratica naturale, senza “quiz americani”, che premiano spesso chi passa il tempo con divertimenti enigmistici, secondo una logica superficiale che bypassa qualsiasi realtà complessa. Faccio un esempio: i corsi del biennio iniziavano alla fine di settembre, con una frequenza che arrivava a sfiorare le trecento persone; dopo le festività natalizie solamente un terzo degli studenti continuava a seguire i rispettivi corsi. Questa è la selezione naturale! Nei corsi del triennio la selezione continuava, fino ad arrivare all’agognata laurea, che incoronava un “culturista del sapere”, preparato ad hoc per sopportare il peso delle future competizioni.
Erano i primi anni novanta quando, per mia deliberata scelta, iniziai la libera professione di ingegnere. Ricordo l’emozione del mio primo lavoro, la cura ossessiva dei dettagli tecnici, lo scambio di opinioni con i colleghi più esperti, ore ed ore di ininterrotto lavoro, saltando spesso il pranzo o la cena, il tutto per imparare a lavorare e per conquistare la fiducia della committenza. Dal progetto si passava al cantiere: l’opera veniva analizzata in ogni dettaglio e, man mano che prendeva forma, si materializzava tutto l’impegno e il sacrificio. Tecnici ed operai rappresentavano i componenti essenziali di un complesso sistema artistico, nessuno poteva esimersi nell’espletare il proprio ruolo, nel miglior modo e con la massima dedizione.
Il premio finale, per quell’impegno, era spesso un fine settimana di svago con gli amici, poche ore con la ragazza o una fugace vacanza.
Finito un lavoro, operai, imprenditori, tecnici progettisti, direttori dei lavori, venivano retribuiti con “equo compenso”, e ciò consentiva a tutti di poter investire nel proprio futuro, di acquistare macchine, software, attrezzature di lavoro, assumere personale dipendente e di supporto, in poche parole ciascuno poteva sperare di star bene nel prossimo futuro, per trasmettere ai figli, o a chiunque esprimeva volontà di fare, l’idea di poter tentare nell’impresa con un trampolino sicuro, frutto del progresso, della preparazione acquisita, dell’esperienza e del reciproco rispetto.
Fare l’ingegnere non è difficile, è sicuramente impegnativo; impegnarsi significa assumere un obbligo, mantenere una promessa, investire energie per ottenere un concreto risultato: una scommessa con la società civile finalizzata al benessere collettivo, quello che oggi sembra solo uno slogan, una metafora scolorita ed anacronistica priva di qualsiasi senso pratico.
Vent’anni di professione non sono poi tanti, davanti a me ci sarebbero ancora molti sogni da dover realizzare – avendo dilazionato il tempo per onorare appieno una promessa – con l’impegno di un adulto che non scorderà mai i sacrifici suoi e dei propri genitori, le molteplici rinunce, su cose che oggi sembrano scontate (andare in discoteca, coltivare hobby, vacanze ecc.), tutto questo nei migliori anni della vita, quelli in cui sognare era per tutti l’unica cosa accessibile e veramente gratuita.
Qualsiasi generazione, forte della propria esperienza, espone la sua storia con malinconica nostalgia, esaltandone gli aspetti positivi: l’educazione, il sacrificio, la voglia di vivere, la realizzazione di un progetto di vita. Chiunque di noi ricorda bene gli anni della propria gioventù, disconoscendo spesso la vita dei giovani di oggi, nel suo insieme come nei singoli dettagli. Ancora adesso sentiamo parlare dei “mitici anni sessanta” soprattutto dagli ultrasessantenni di oggi, così come i “mitici anni ottanta” sono una prerogativa degli ultraquarantenni, cui anch’io appartengo; è un gioco delle parti, l’importante è saper discriminare le differenze e valutarle in funzione della naturale evoluzione socio-culturale. Con questa premessa, possiamo senz’altro affermare che non esiste un El Dorado storico, un’epoca d’oro della felicità, ogni epoca porta con se aspetti positivi e negativi, che vengono valutati con la nostra esperienza pregressa; questo è il vero limite del giudizio: valutare senza volontà di conoscere a fondo, con il proprio passato come unico elemento di paragone.
La mia formazione di vita o, se vogliamo, la mia educazione, hanno rafforzato in me un senso critico nella valutazione degli eventi e nella soluzione dei problemi. Un aspetto del carattere, forse a volte ridondante, che mi porta ad analizzare a fondo – questa è almeno la mia percezione – qualsiasi evento sociale, prima ancora di risolvere eventuali conflitti ed interferenze, per far si che il mio stato di benessere sia messo a disposizione per costruire ed implementare il benessere collettivo.
Certamente, non essendo io né un santo né un missionario, cerco di portare avanti questa mia vocazione sociale senza pagarne tutte le spese. Con questo spirito, e a scanso di equivoci, espongo dunque il mio punto di vista sulla trasformazione dell’ingegneria italiana e degli attori che la rappresentano, in primis di noi ingegneri.
Conosciamo tutti il valore dell’ingegneria italiana del recente passato, i suoi protagonisti e il contributo nella ricerca in ogni settore dell’attività umana. Questa capacità tecnica – sicuramente supportata da una passione per la professione di ingegnere – è anche il frutto di un’adeguata preparazione teorico-pratica e di una volontà dinamica di affrontare le varie sfide di una società in continua evoluzione. L’attività dell’ingegnere non può essere slegata dalle esigenze sociali del momento, è quindi necessario che si instauri un connubio tra richieste sociali e capacità tecniche, quest’ultime indispensabili per soddisfare al meglio le varie esigenze. Di qui la necessità di una rigorosa formazione accademica – dalle scuole elementari, alle scuole medie di primo e secondo grado, fino alle università -, con accesso garantito a chiunque e con selezione meritocratica, attuata durante l’intero corso degli studi. Meglio pochi ma buoni, anziché importare ingegneri dall’estero o costringere i nostri laureati a ridimensionare la loro attività a livelli parziali e marginali del settore dell’ingegneria, ovvero a doversi trasferire all’estero alla ricerca di terreno fertile per nuove ed improvvisate competenze. Grazie alla naturale flessibilità, che caratterizza il nostro popolo, l’ingegnere italiano, ancorché oggi spesso “malformato”, se la cava comunque, non in quanto ingegnere, ma per il fatto che è italiano; è un peccato non approfittare di questa “dote genetica” e non andare oltre. Lo studio tutto, e quello universitario in particolare, rappresenta un’occasione unica ed irripetibile per allenare la mente (soprattutto all’età giusta), per essere poi originali e per non annoiarsi mai. Faccio un appello, ai presidi delle facoltà di ingegneria italiane, affinché si facciano portavoce dell’evidente malessere cui versano le nostre università, frammentate in una miriade di corsi di laurea e di insegnamento, con sedi universitarie – spesso solo con qualche decina di iscritti – sparse ovunque nel territorio nazionale. Le sedi universitarie, in Italia, sono oramai dappertutto, avere l’università sotto casa priva l’alunno di quella sana indipendenza, che nel passato scaturiva dalla necessità di doversi trasferire in un’altra città, lontano dai genitori e dagli amici; il budget economico doveva bastare per un periodo prefissato, e questo favoriva la capacità di autonomia, spesso rafforzata con qualche lavoro occasionale che serviva per far quadrare i conti e per contribuire attivamente al bilancio familiare. Siamo sicuri che avere l’università sotto casa rappresenti una riduzione di spesa? Per un bilancio a lungo termine – non solo monetario – forse ciò non conviene, quindi: ripensiamoci. Il Corriere della Sera, di qualche giorno fa, riportava la notizia dell’incremento di iscrizioni alle facoltà di ingegneria italiane, questa sarebbe senz’altro una bella notizia se, a valle dell’iscrizione, ci fosse una formazione adeguata, e una società civile, quella italiana, pronta ad accogliere gli ingegneri laureati con fiducia e rispetto, e non, come accade sistematicamente oggi, trattandoli come ladri e mangiapane a tradimento, come coloro che guadagnano tanto per “qualche calcolo” e “due disegni”, tra l’altro “fatti dal computer”. Non pretendo, comunque, che tutti conoscano l’attività dell’ingegnere, le scienze che sono alla base della sua professione, il continuo aggiornamento e, non per ultimo, i costi di gestione. Faccio un esempio comparativo: un software di calcolo strutturale arriva a costare decine di migliaia di euro, contro qualche centinaia di euro di un software di scrittura di uno studio notarile. Da sottolineare, inoltre, che il notaio usa uno o, al più, due software e una calcolatrice di circa tre euro che fa le operazioni aritmetiche di base (necessaria per calcolare l’onorario minimo, ancora adottato da tutti i notai italiani), l’ingegnere utilizza decine di software, con costi di aggiornamento che costituiscono altrettante tasse annuali fisse, oltre a computer, stampanti, plotter ed apparecchiature di rilievo. Ci sono poi le spese di assicurazione obbligatoria, altre spese di assicurazione per ciascun incarico pubblico di progettazione esecutiva, spese di registrazione di contratti pubblici, spese per corsi di aggiornamento obbligatori (corsi necessari, dal gennaio del prossimo anno, per mantenere l’iscrizione all’ordine professionale e per esercitare la professione), spese di conto corrente fiscale obbligatorio, spese per contributi previdenziali obbligatori, che sfiorano il venti per cento del reddito, spese di iscrizione all’ordine professionale, spese per la firma elettronica, spese di affitto dello studio, ovvero l’IMU (o tassa equivalente) per uno studio di proprietà, spese per la TARES, dieci volte superiore alla relativa spesa per un’abitazione, spese per attrezzature e materiali di consumo, spese per l’installazione e la gestione del POS, obbligatorio dal gennaio del prossimo anno, spese per il commercialista, spese per le utenze ed altre spese in funzione della specifica prestazione tecnica. Tornando all’esempio, un notaio redige un atto in una frazione di ora, con responsabilità marginali, e spesso implicitamente demandate alle parti contraenti, per tale prestazione esige subito il pagamento dell’onorario, ancor prima della trascrizione dell’atto nell’apposito registro; la prestazione di un ingegnere segue un gestazione lunga e contorta, colpa anche del sistema burocratico italiano, con autorizzazioni e nulla-osta multipli, un’operazione psicologica non indifferente, prima ancora che una prestazione tecnica. L’onorario viene liquidato, quando ciò avviene, solamente dopo aver acquisito tutti i pareri tecnici e dopo aver concluso il procedimento autorizzativo. Per non parlare della fase realizzativa e di collaudo, che interessa anche le imprese esecutrici, oltre al responsabile del procedimento e a tutti gli organi di controllo. In Italia per completare un’opera di modesta entità (qualche centinaio di euro di lavori) occorrono anni; lavori iniziati, spesso vengono sospesi, per cause non riconducibili alla volontà e alla responsabilità dell’ingegnere direttore dei lavori; in tal caso anche l’onorario viene congelato e tutto il lavoro svolto è appeso ad un incerto destino. Ad esempio, molti cantieri pubblici sono oggi sospesi a causa della mancata liquidazione degli stati d’avanzamento dei lavori già maturati; le imprese non se la sentono di sostenere i costi dei lavori rimasti, in quanto non liquidabili dalla pubblica amministrazione, e i relativi cantieri sono nell’abbandono completo, con le nostre responsabilità sempre attive e non certo retribuite.
Si sente dire, spesso, che un dipendente pubblico guadagna poco, è tassato alla fonte e non può evadere un centesimo, mentre un libero professionista, e anche un ingegnere, è fortunato, perché guadagna molto di più e può evadere allegramente. Quanta ipocrisia in queste affermazioni! In termini di bilancio, un dipendente pubblico lavora otto ore al giorno, il professionista ingegnere non conosce orari, con una media che non scende al disotto delle dodici-tredici ore al giorno; si porta appresso il lavoro, in quanto viene contattato a tutte le ore del giorno, senza periodi di festa o di riposo. Un dipendente pubblico che si ammala ha garantito un periodo di malattia retribuito, il professionista ingegnere che si ammala deve organizzarsi per portare avanti il suo lavoro, pagando i collaboratori ovvero recuperando il tempo di malattia dopo la guarigione, incrementando così i ritmi di lavoro. Un dipendente pubblico ha a disposizione trenta giorni di ferie retribuite, il professionista ingegnere non ha questo privilegio e, se va in “ferie”, poi deve recuperare. Al dipendente pubblico spetta una mensilità retribuita, cosiddetta tredicesima, cosa non prevista per il professionista ingegnere. Al dipendente pubblico spettano, inoltre, premi di produttività, incentivi, agevolazioni varie e, cosa più importante, uno stipendio ben definito e sicuro, che viene periodicamente stabilito dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Per il libero professionista ingegnere esisteva, fino a qualche ano fa, la cosiddetta Tariffa Professionale, una sorta di prezzario che rappresentava una retribuzione minima di legge, proporzionata alla tipologia e all’entità della relativa prestazione. I minimi tariffari, adottati soprattutto in ambito pubblico, erano, di fatto, dei massimi di legge, che costituivano dei riferimenti per le prestazioni professionali di ingegneria ed architettura; gli enti pubblici potevano derogare dalle tariffe con ribassi che non potevano superare il venti per cento. In tal modo veniva riconosciuta una dignità professionale, al pari delle prestazioni degli altri lavoratori, sia del settore pubblico che del settore privato. Il Ministro Bersani, mosso a mio avviso da una miope invidia sociale, con il Decreto omonimo, ha spazzato via le tariffe professionali degli ingegneri e degli architetti. Da allora si è cercato di ricreare dei parametri di contrattazione con la pubblica amministrazione, per poter stabilire l’equo compenso di una prestazione professionale. La mancanza di una storia pregressa degli onorari professionali, in regime di libero mercato, ha creato, e sta creando tutt’oggi, dei seri problemi nei rapporti con la pubblica amministrazione; la contrattazione avviene spesso sulla base dei residui disponibili nel quadro economico dell’opera, con delle sperequazioni sempre al ribasso per il professionista, che si trova nelle condizioni di prendere o lasciare, senza poter intraprendere alcuna contrattazione reale. In altri casi si fa ricorso ai bandi di gara per l’affidamento dei servizi di ingegneria ed architettura, con evidenza nazionale anche per importi a base di gara di qualche migliaio di euro, a fronte di prestazioni professionali onerose in termini di impegno tecnico, di tempi burocratici di istruttoria e di spese da sostenere.
Anche qui gli importi posti a base di gara sono spesso casuali ed incongruenti rispetto alle attività elencate nel bando. I requisiti richiesti sono, per legge, sia di natura tecnico-organizzativa (dipendenti dello studio, attrezzature disponibili, ecc.), sia di ordine economico (fatturato in relazione alla tipologia e all’importo dell’opera), oltre al requisito di aver già realizzato opere della stessa tipologia di quella richiesta dal bando, fino alla concorrenza di un determinato importo. A questo si aggiunge la necessità di essere in regola con i versamenti contributivi (certificazione di regolarità contributiva rilasciata dalla cassa previdenziale di competenza) oltre al possesso dei requisiti generali previsti dalla legge. Si arriva al paradosso in cui molti studi professionali non possono partecipare ad un bando in quanto studi con il solo titolare o con un numero non sufficiente di dipendenti, per una prestazione professionale che potrebbe svolgere benissimo una sola persona, oppure al caso più frequente di giovani che vengono tagliati fuori dal mondo dei lavori pubblici anche per incarichi di bassa qualità tecnico-economica, che potrebbero invece costituire la naturale palestra per l’avvio della professione. Per i bandi di progettazione, si arriva spesso ad avere centinaia di offerte, con ribassi senza limite, anche dell’ottanta-novanta per cento, a fronte di una base d’asta quasi sempre sottostimata.
Tutto questo “rigore di legge” non è poi accompagnato da un comportamento altrettanto rigoroso della pubblica amministrazione che, sguazzando nel caos, aggiusta la norma a modo suo e, d’altra parte, nessuno al governo nazionale fa nulla per cambiare queste scellerate norme. Per fare un confronto con gli altri paesi europei, basti sapere che in Germania sono tutt’ora vigenti le tariffe professionali per gli ingegneri e gli architetti, che sono state recentemente aggiornate e non abrogate come da noi. Evidentemente i tedeschi riconoscono la dignità dei lavoratori autonomi, ben sapendo che è meglio scaricare le spese del Welfare, non attaccando i lavoratori autonomi che pagano le tasse e che finora non hanno preteso nessuna tutela e nessun ammortizzatore sociale; un “do ut des” accettato da tutti, al riparo di qualsiasi invidioso sociale animato da velleità distruttive.
L’ingegnere in Italia, anche ai tempi in cui la formazione era rigorosa e selettiva, è stato comunque sempre bistrattato, sia come libero professionista (considerato un privilegiato, colui che guadagnava tanto senza sudare, reminescenza, questa, di un’Italia rurale che pesava il lavoro dai calli delle mani e dalle camicie macchiate di sudore), sia come dipendente di un’impresa o dell’industria (ancora oggi gli ingegneri vengono retribuiti al pari, o anche meno, di geometri o periti industriali, tanto debbono solo firmare e la legge, da sempre, non fa differenze); i dipendenti pubblici ingegneri sono anch’essi inquadrati in ruoli anomali, con responsabilità senz’altro non riconosciute e non retribuite rispetto agli altri lavoratori; un ingegnere impiegato civile del Ministero della Difesa, ad esempio, guadagna persino la metà di un maresciallo di pari qualifica, con le medesime mansioni e con responsabilità spesso ridotte. Per molti giovani professionisti, e per altri non più giovani, non c’è via d’uscita, inquadrati spesso come liberi professionisti – titolari di partita IVA – che lavorano non in forma automa, bensì alle dipendenze di altri studi professionali; questi professionisti fungono da ammortizzatori fiscali per le esigenze contabili di coloro che li sfruttano.
Gli ingegneri dipendenti dell’industria vengono inquadrati nel lavoro con contratto di metalmeccanico di quinta-sesta categoria, non è previsto per loro un diverso riconoscimento delle competenze tecniche e delle responsabilità rispetto ad un perito industriale o ad un qualsiasi diplomato. I sindacati – che stipulano i contratti collettivi nazionali di lavoro – ancora oggi rinnegano di fatto il lavoro intellettuale, uniformando tutti i lavoratori in una mescola amorfa che non tutela nessuno.
E così, dopo questo lungo racconto, si può comprendere il perché l’ingegnere italiano viene invitato ad andarsene dal suo Paese; i governi politici sono sordi al richiamo di migliaia di professionisti ingegneri che chiedono solamente di lavorare con dignità e professionalità, di ristabilire una logica meritocratica, nei limiti del possibile e con le scarse risorse di cui disponiamo. Non disperdiamo la nostra tradizione storica, per una diaspora senza ritorno che porterà solamente caos e miseria.
L’ingegnere è un dono di Dio, e un popolo che odia gli ingegneri odia anche il Creatore; perciò, al diavolo gli invidiosi sociali! Io la mia parte la farò, nessuno potrà mai interrompere quel sogno, iniziato molti anni fa nei banchi della facoltà di ingegneria di Roma: i miei compagni di studio, che non ho più rivisto, le calde giornate d’estate passate a studiare, il giorno della laurea, la stretta di mano con i professori della commissione, l’immagine di mia madre che piangeva dalla gioia, la libertà racchiusa in quel giorno, quella meritata libertà che porterò sempre con me, per gridare grazie! Sono fiero di essere un ingegnere italiano! Cari colleghi, riprendiamoci il Paese! Gli sciacalli che ci hanno ferito svaniranno come le ceneri di un fuoco di paglia, e noi torneremo ancora più forti, per servire il nostro popolo, per la nostra vita, per i nostri figli, per la nostra libertà.
Pietro Francesco Nicolai, un ingegnere italiano.