Categoria: edilbank

apr 23 2014

Codice Fiscale: la verifica si fa online

Viaggia online la verifica del proprio codice fiscale grazie al nuovo servizio resto disponibile dall’Agenzia delle Entrate sul proprio sito istituzionale senza necessità di registrazione. Il meccanismo è semplice, basta inserire le 16 cifre e lettere che compongono il proprio codice fiscale per sapere se questo è corretto. Continua

apr 22 2014

Appuntamento con la manifestazione "In Umbria con gusto" „Torna Umbria con Gusto: ecco dove mangiare e bere da intenditori a 25 euro“

Parte la manifestazione “In Umbria con Gusto” che dà appuntamento nei migliori ristoranti della provincia di Perugia a chiunque volesse mangiare dell’ottimo cibo e bere del buon vino a un prezzo accessibile. Continua

 

apr 18 2014

”Attenzione alle truffe nel periodo delle festività"

L’Enel mette in guardia: durante le festività pasquali, anche a Terni aumenta il rischio di truffe operate da sconosciuti che si presentano alla porta come dipendenti di società fornitrici di servizi con l’obbiettivo di raggirare i cittadini. Per prevenire questi episodi, che possono costare caro ai cittadini che cadono nella trappola, Enel diffonde informazioni per distinguere i veri incaricati dagli impostori malintenzionati. Continua

apr 18 2014

Crediti Formativi Professionali (CFP): Formazione continua o speculazione continua?

Che quello della formazione continua sarebbe stato un business lo pensavamo in molti, ma che l’affare lo facessero soprattutto gli Ordini provinciali in realtà non era per nulla prevedibile. E’ il caso dell’Ordine degli Architetti della provincia di Palermo che della formazione continua sta facendo un vero e proprio mercato (Palermo è già famosa per quello di Ballarò), utile a sanare i buchi di bilancio causati dagli iscritti morosi.

Vi servono 3 CFP? Benissimo, è necessario pagare appena 15 euro. Ve ne serve solo 1? Vanno bene 5 euro. E chissenefrega se il corso non vi interessa, è sufficiente investire poche ore del proprio tempo e un budget economico molto contenuto per ottemperare all’obbligo di formazione continua.

Entrando nel dettaglio, il 28 Marzo 2014 si svolgeva a Palermo un seminario sull’Abusivismo edilizio per il quale l’Ordine degli Architetti di Palermo ha riconosciuto fino ad un massimo di 6 CFP. Per l’iscrizione, l’architetto palermitano ha compilato un modulo in cui dichiarava:

“Il Sottoscritto dichiara di aver preso visione dell’obbligo di versamento di €.5,00 per ogni credito formativo che sarà riconosciuto dal C.N.A. per la partecipazione dell’evento formativo”.

Sull’argomento è intervenuta il Consigliere provinciale Claudia Rubino che in una nota ha precisato quanto segue: “Il Seminario sull’abusivismo edilizio che si è tenuto lo scorso 28 marzo è costato all’Ordine degli APPC di Palermo circa 4.000 euro…a fronte di un incasso per l’Ordine di circa 12.000 euro (circa 400 partecipanti * 30 euro, che ogni partecipante deve versare all’Ordine per ottenere i CFP previsti). Ciò vuol dire che l’Ordine, attraverso l’organizzazione/adesione a questo seminario, ha guadagnato circa 8.000 Euro, che non servono solo a coprire le spese affrontate, ma anche a “fare cassa” mettendo le mani sul portafoglio dei nostri colleghi su molti dei quali già grava il peso della crisi che stiamo attraversando e che in alcuni casi ha determinato la chiusura di molti studi professionali. Più che di “formazione continua” si dovrebbe parlare di “speculazione continua” autorizzata dal vigente DPR 137/2012 a danno degli iscritti, che sottraggono tempo al loro lavoro per seminari che in alcuni casi sono anche poco formativi”.

Simpatico anche il pensiero di un noto architetto di Palermo che ha così commentato la faccenda “Cosa è rimasto di libero nella nostra professione? Ci troviamo obbligati a raccogliere i punti, come fanno le brave massaie al supermercato per ricevere il “pratico telo mare”. Mi sfugge inoltre su quali argomenti dovremmo continuamente formarci, (le piastrelle di Kerlite?, i led colorati? i nuovi sistemi di sciacquoni digitali?).

Mi dicono che, visitando la recente mostra di Sua maestà Renzo Piano tenuta a Padova, si potevano ottenere ben 3 crediti formativi. riuscendo a toccargli la barba si poteva salire anche a 7….Ma ci rendiamo conto?

La formazione permanente potrebbe forse avere un senso per i colleghi della pubblica amministrazione, ma per un libero professionista che si confronta con il libero mercato me ne spiegate il senso? La formazione obbligatoria è l’opposto di quella realmente utile”.

Ma non ho ancora terminato.

Con un comunicato di pochi giorni fa, il Consiglio Nazionale degli Architetti ha informato dell’organizzazione, il prossimo 8 Maggio a Roma, di un convegno sul tema “Aprire il mercato dei lavori pubblici: la proposta della Rete delle Professioni Tecniche” organizzato dalla Rete dei Consigli Nazionali delle Professioni Tecniche. La partecipazione al Convegno, totalmente gratuita, darà diritto all’attribuzione di 4 CFP ai sensi delle linee guida sull’aggiornamento professionale continuo degli Architetti.

Considerata l’importanza dell’evento, il CNAPPC ha dato la possibilità agli Ordini provinciali di offrire ai loro iscritti l’evento in streaming. In tal caso gli Ordini potranno certificare la presenza e riconoscere ai partecipanti i 4 CFP.

L’Ordine degli Architetti di Palermo, molto attento quando si parla di formazione e servizi utili agli iscritti, ha così prontamente deciso di aprire le prenotazioni al convegno. Fin qui niente di male, se non fosse però che questa volta è stato richiesto il contestuale pagamento di 20 euro (casualmente 5 euro x 4 CFP) quale diritto di Segreteria a titolo di rimborso spese forfettario.

Considerata, dunque, la gratuità dell’evento (organizzato dal CNAPPC), che l’organizzazione in streaming non comporta chissà quali costi aggiuntivi e che la Segreteria dell’Ordine dovrà pur servire a qualcosa, mi chiedo come sia possibile che uno dei principali Ordini (in termini di iscritti) d’Italia possa permettersi di chiedere 20 euro per la trasmissione in streaming di un evento organizzato da altri. Credo, piuttosto, che con la formazione continua si stia perdendo totalmente la bussola e che così com’è strutturata stia servendo solo a (passatemi il termine) “fare cassa”.

A cura di Ilenia Cicirello

 

apr 17 2014

“Formazione continua” foglia di fico per una crisi nera

Si chiama “formazione continua” e obbliga tutti gli iscritti ad albi professionali a rimettersi sui banchi per accumulare crediti formativi, come all’università.Debbono cioè frequentare corsi o partecipare a seminari, ma soltanto a quelli accreditati dagli Ordini (e l’iter di accreditamento non è dei più soft, anche perché richiede un contributo economico). Molte di queste attività formative sono inoltre a pagamento. In altre c’è l’obbligo di acquistare volumi. Obiettivo finale: accumulare 60 crediti in tre anni, di cui 15 su questioni deontologiche.

Un obbligo di legge – promosso dal governo Monti (Dpr 137/2012) ma dopo incontri con gli organismi settoriali – che include anche i giornalisti, o perlomeno gli iscritti all’Ordine dei giornalisti (laddove le decine di migliaia di “pubblicisti” possono anche svolgere altri mestieri), che sono globalmente oltre 100mila in Italia. Una situazione che oltre ad alimentare malumori e proteste, specie in questo periodo di recessione, sta mettendo in crisi la macchina organizzativa.

In un periodo di grave disfacimento del comparto editoriale, che coinvolge anche le testate del terzo settore già falcidiate dalle riduzioni delle agevolazioni postali, la risposta dall’alto è quella di appesantire il carico degli operatori del settore con iniziative formative spesso discutibili. Come quella svoltasi qualche giorno fa presso la Commissione europea a Roma, interlocutori due europarlamentari, di cui uno ha lasciato la sala con due ore di anticipo rispetto ai tempi previsti a causa “dell’assemblea nazionale del suo partito”. Il seminario sull’Europa ha fornito come dati più recenti sulla povertà quelli del 2012, mentre l’Istat ha divulgato gli ultimi ad inizio 2014. Di altre iniziative è scarsa la promozione. Per altre è stato chiesto l’obbligo di iscrizione ad un sindacato del settore, obbligo poi ritirato. In tutto ciò l’Ordine, finanziato con i soldi degli iscritti, sta investendo ingenti risorse, come ha precisato il presidente Iacopino in una lettera di presentazione dell’iniziativa a dicembre scorso.

Però, ad onor del vero, chiudere in un’aula un giornalista è decisamente in antitesi rispetto a ciò che hanno sempre predicato i maestri del mestiere: “cucina redazionale” all’interno di una testata e scarpe da ginnastica per andare a caccia di notizie. Ma da qualche anno la logica s’è capovolta e le onerose scuole per accedere al praticantato si sono moltiplicate a dismisura rispetto alle quattro originarie. Inoltre è stato ormai di fatto superato l’obbligo di svolgere il praticantato in una redazione qualificata e con più professionisti, come richiede la legge: l’orientamento più recente è il riconoscimento “di fatto” del periodo di apprendistato o il “ricongiungimento” con corsi di formazione da 250 euro.

Nel contempo, però, gli organi del settore hanno scoperto una febbrile attività nel partorire carte deontologiche e nel dar vita ad iniziative formative. Mentre il comparto sprofonda in una crisi drammatica e senza precedenti, non soltanto quantitativa ma anche qualitativa. E a ben poco possono servire gli aggiornamenti professionali imposti tramite le sole attività certificate: per quale motivo dovrebbe essere migliore un corso di lingue con “il bollino” dell’Ordine rispetto ad uno del British? O perché un corso sulla deontologia di pari ore a Benevento rilascia quattro crediti e a Nola dieci? Inoltre, benché variegata, può una formazione coprire gli infiniti settori in cui sono specializzati i giornalisti? E ancora: quale vantaggio competitivo può dare la formazione nel momento in cui tutti i giornalisti sono obbligati a seguirla?

Per la cronaca, gli argomenti proposti dall’Ordine pugliese, ad esempio, vanno da “Giornalismo e musica internazionale” a “Dal dolore al diabete, la medicina specialistica nella stampa generalista”, da “Donne in cartiera” a “Infertilità e ambiente, il ruolo dei mass media”.

Mentre agli operatori del settore, ormai in maggioranza lavoratori autonomi, si sottrae tempo prezioso per questo genere di attività (compresi i “comizi” degli europarlamentari che garantiscono crediti), l’editoria ha perso ben 1.660 posti di lavoro negli ultimi cinque anni. Secondo i drammatici dati della Fieg, la federazione della stampa, nel 2013 le vendite dei quotidiani sono scese del 10,3 per cento e i ricavi da inserzioni addirittura del 19,4 per cento. Non è andata meglio ai periodici: meno 9,8 per cento in edicola, meno 24,5 per cento di ricavi pubblicitari. Gli editori, giocoforza, rispondono tagliando le redazioni e non assumendo più. La situazione della Rcs è emblematica, ma anche al Sole 24 Ore non si naviga in buone acque. La cassa integrazione e i contratti di solidarietà sono ormai la regola in molte aziende editoriali.

Il trend, tra l’altro, è sempre più accentuato. Il fatturato degli editori di quotidiani è sceso del 2,1 per cento nel 2011, del 9,9 per cento nel 2012, fino a crollare dell’11,1 per cento nel 2013. Colpa soprattutto del calo della pubblicità. Nonostante i contributi per l’editoria, nel 2012 soltanto sedici aziende risultavano in utile, contro 35 che hanno chiuso i bilanci in rosso subendo perdite complessive per 149,4 milioni (l’anno prima per 66,6 milioni).

I lettori di quotidiani sono oggi poco più di 20 milioni rispetto ai 25 milioni del 2011. Per i periodici s’è passati in appena due anni da 33 a poco più di 28 milioni.

In controtendenza, ma flebile, l’on-line: i lettori di testate quotidiane sono passati da 2,7 a 3,7 milioni in due anni.

L’effetto di questa situazione drammatica lo stanno pagando soprattutto i giornalisti: tra il 2009 e il 2013, secondo i dati Fieg, ne sono rimasti a spasso 887 dei quotidiani e 638 dei periodici. Si è più che dimezzato (da 173 a 75) il numero dei praticanti, da cui la necessità di ricorrere ai praticantati d’ufficio soprattutto per non dare contraccolpi alle casse previdenziali.

apr 16 2014

Bonus 65%: estese le detrazioni per efficienza energetica

Le FAQ Enea sull’applicazione delle detrazioni fiscali del 65% alle installazioni di caldaie connesse alla pompa di calore.

Il Bonus 65%, ovvero la detrazione fiscale prevista per chi effettua investimenti nella riqualificazione energetica degli edifici, spetta anche in caso di installazione di caldaie connesse alla pompa di calore. A chiarirlo è stata l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), spiegando che si può usufruire della detrazione IRPEF anche per i sistemi di climatizzazione invernale costituiti da un’unità esterna e un’unità interna che, in un unico contenitore, prevedono sia la caldaia a condensazione che una pompa di calore di piccola potenza. Continua

apr 15 2014

Autorità Lavori Pubblici: Nuova Consultazione su cauzione provvisoria e definitiva

L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha lanciato una nuova consultazione on line in tema di causioni negli appalti pubblici allegando uno schema di determinazione recante “Problematiche in ordine all’uso della cauzione provvisoria e definitiva (artt. 75 e 113 del Codice)”.

Le osservazioni devono essere inviate entro il prossimo 5 maggio alle ore 18:00, mediante la compilazione dell’apposito modulo formato .pdf che, unitamente agli estremi identificativi del mittente, consente l’inserimento di un testo libero fino a 15.000 battute.

I contributi pervenuti saranno pubblicati sul sito web dell’Autorità, in forma non anonima, salvo che vengano evidenziate motivate esigenze di riservatezza. Continua

apr 15 2014

Impianti termici: dal 1 giugno 2014 arriva il libretto unico

Disponibile sul sito del Ministero dello sviluppo economico, il libretto unico per gli impianti termici e i nuovi modelli per il rapporto di efficienza energetica.

A partire dal 1 giugno 2014 gli impianti termici devono essere muniti del nuovo libretto unico e per il rapporto di controllo di efficienza energetica sono disponibili nuovi modelli sulla base delle indicazioni espresse nel decreto ministeriale 10 febbraio 2014. Sul sito del Ministero dello sviluppo economico sono disponibili il nuovo libretto unico per gli impianti termici e i nuovi modelli per il rapporto di controllo di efficienze energetica per i gruppi termici, gruppi frigo, scambiatori, cogeneratori. Continua

apr 12 2014

PROFESSIONISTI UMBRI?


COLTI, COMPETENTI e INFORMATI. 


E’ PRETENDERE TROPPO?

apr 10 2014

Crediti Formativi Professionali (CFP), la risposta del Presidente dei Geologi Gian Vito Graziano

Il Presidente del Consiglio nazionale dei Geologi in merito all’articolo “Crediti formativi e Tariffe professionali: dove sta la perequazione?” pubblicato recentemente

Per molti versi condivido i contenuti dell’articolo, ma non per tutti.
Sull’aggiornamento professionale ad esempio la mia opinione è diversa da quella espressa dall’articolo: io ritengo che questa può essere un’occasione di crescita per le categorie professionali, ma bisogna lavorare per rendere i corsi dei veri e propri eventi formativi e non passerelle o prebende per società di formazione.
Per quanto ci riguarda, noi geologi, dopo 6 anni di obbligo di aggiornamento, stiamo puntando molto sulla qualità dei corsi e soprattutto di chi li fornisce.
Abbiamo già accreditato enti di formazione come Italferr, Anas, Sigea, ecc. e ci aggingiamo a farlo con altre società molto qualificate, sbarrando la strada a gente improvvisata. La qualità non è semplice da raggiungere, ma neanche impossibile. Occorre conoscere alcuni meccanismi per evitare alcune storture nel sistema, che anche noi geologi, in 6 anni, abbiamo avuto. Ma ti assicuro che dopo 6 anni qualcosa abbiamo imparato.
Frequentando gli organismi di rappresentanza europea dei geologi, dove quasi tutti i Paesi membri fanno aggiornamento professionale, ti assicuro che la nostra posizione di geologi italiani è molto migliorata in termini di credibilità da quando abbiamo imposto questo obbligo
.
L’articolo, in verità, voleva essere una provocazione sulla sperequazione tra l’operato del governo nei confronti della libera professione con l’eliminazione delle tariffe professionali e l’obbligo dei crediti formativi ma, in ogni caso, lungi da me la voglia di non essere d’accordo sulla formazione! 
Il problema vero (ed è quello che ho potuto constatare personalmente) riguarda la possibilità concreta che la formazione diventi solo la rincorsa ai CFP e ai corsi che a meno prezzo diano più crediti. E, quindi, come affermato nell’articolo diMagnaschi su Italia Oggi “un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti“.
Così com’è strutturata la formazione diventerà solo un’operazione di massa in cui, sotto il pungolo dei CFP, centinaia di professionisti saranno costretti ad presenziare (a volte senza ascoltare) a corsi su argomenti per i quali non hanno alcun interesse!
Operazione di massa che consentirà a taluni Ordini la sistemazione dei propri bilanci facendo pagare agli iscritti la certificazione dei CF non in funzione del tipo di corso/seminario ma soltanto in funzione del numero di crediti rilasciati!
Per fare un esempio, vorrei sapere quale formazione ottiene un professionista che si occupa di impiantistica o di arredamento nell’ascoltare un seminario sull’abusivismo edilizio? In queste condizioni si intraprende solo un percorso di “bambinificazione”umiliante per i professionisti più seri. E vorrei comprendere perché l’importo da versare per aver rilasciato il certificato sui CF debba essere parametrato al numero dei crediti (in certi Ordini per 1 credito il costo è di 5,00 Euro, per 6 crediti il costo è di 30,00 Euro)!
Mi fa piacere che il Consiglio Nazionale dei Geologi stia puntando sulla qualità dei corsi e di chi li fornisce ma credo, in ogni caso, che sarebbe interessante puntare su una formazione libera e non obbligatoria che, paradossalmente, può diventare, per i professionisti interessati ad ottenere soltanto i crediti utili ad evitare il provvedimento disciplinare, una costosa perdita di tempo.
Ma in quale società libera di tipo occidentale è possibile una situazione simile? Crediamo veramente ad un professionista con il “bollino” e crediamo che un professionista debba essere certificato soltanto per i crediti formativi che ottiene e non per le sue competenze e le sue realizzazioni? 
Riteniamo che un professionista possa valere soltanto se ha raggiunto un dato nunero di crediti formativi senza alcun riferimento alla sua reale attività professionale o, invece, siamo dell’opinione che debba essere il mercato a fare quella naturale selezione che, ovviamente, scaturisce dalla preparazione e dalla formazione dei professionisti stessi?
Io credo in una naturale selezione del mercato ma, contestualmente, non sono contro la formazione e non potrei esserlo perché non avrei dedicato molti anni della mia vita all’insegnamento universitario. Sono contro la generalizzazone, l’obbligatorietà e la massificazione della formazione e credo che quella dei professionisti non può essere ottenuta con un progressivo effetto “rincorsa” al CFP.
A cura di arch. Paolo Oreto

apr 08 2014

Crediti formativi e Tariffe professionali: dove sta la perequazione?

Era di pochi giorni fa un articolo sui corsi di formazione del quotidiano Italia Oggi che mi sono sentito in dovere di condividere sui nostri canali social e che definiva l’obbligo di formazione continua “un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti”.Condividendo pienamente ogni singola parola, l’articolo mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti del problema che non mi sembrano secondari e che riguardano il palese atteggiamento di sperequazione che i Governi succedutisi negli ultimi anni hanno avuto nei confronti delle libere professioni.

Se con l’approvazione del primo pacchetto sulle liberalizzazioni (decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito poi dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, c.d. decreto Bersani) si è proceduto gradualmente prima alla liberalizzazione delle tariffe professionali e poi alla loro completa eliminazione (con il Governo Monti), con la pubblicazione del D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137 si è imposto ai liberi professionisti l’aggiornamento continuo (art. 7) che concretamente si traduce in un aggravio di tempo e denaro che il professionista è costretto ad investire dall’1 gennaio 2014.

Entrando nel dettaglio dei provvedimenti approvati, dal mese di gennaio 2012, con il decreto-legge n. 1/2012 convertito dalla legge n. 27/2012 sono state totalmente abolite le tariffe professionali delle professioni regolamentate e si è stabilita la “pattuizione” del compenso professionale al momento del conferimento dell’incarico. Tale previsione normativa ha portato alle estreme ed aberranti situazioni note ormai a tutti che hanno condotto fino al progressivo svilimento delle prestazioni intellettuali, con offerte al limite dell’assurdo: predisposizione di certificazioni energetiche per abitazioni e locali commerciali a 39,90 Euro – consulenza e stesura di un progetto architettonico per ristrutturazione appartamenti e negozi a soli 100,00 euro.

La causa delle aberrazioni del mercato possono essere ricercate sia in un uso improprio della rete, che ha ormai dato il via a pratiche commerciali di ogni natura e sacrificato la qualità del progetto sull’altare di termini quali “personal branding” e “networking”, sia nella concorrenza innescata dalla cancellazione delle tariffe professionali che, nonostante l’unico limite imposto dal rispetto dell’art. 2233 del codice civile (che misura, in modo molto aleatorio, il compenso professionale in funzione dell’importanza dell’opera e del decoro professionale), ha generato un vortice di strategie di marketing il cui unico minimo comune denominatore è il prezzo (sempre al ribasso).

Anche l’ultima barriera del rispetto del decoro professionale è stata posta in discussione dall’Autorità garante della concorrenza e del Mercato che con il suo Presidente, Giovanni Pitruzzella, ha richiesto più volte e, per ultimo nell’audizione del 4 giugno 2013 alla X Commissione permanente Attività produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati, l’eliminazione dai riferimenti normativi dell’adeguatezza del compenso del professionista rispetto al “decoro professionale” e alla “importanza”, ostacolo (in che modo ancora non si comprende!) alla liberalizzazione del settore delle libere professioni.

Dall’1 gennaio 2014, tutti i liberi professionisti iscritti agli albi, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R. n.137/2012, hanno l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale con la precisazione che la violazione di tale obbligo costituisce illecito disciplinare.

La corsa al credito professionale ha portato ordini e collegi professionali alla definizione di seminari in cui molto spesso parte del tempo è dedicato a quelle che amo definire “passerelle” dei politicanti di turno. Ciò sta già generando nella mente dei professionisti un progressivo effetto “rincorsa” al seminario che offre più CFP ma senza alcun interesse all’argomento trattato. Sarebbe interessante sapere quanti professionisti avrebbero partecipato agli stessi seminari se non ci fosse stata la necessità dell’acquisizione dei crediti necessari per evitare un provvedimento disciplinare.

Dunque, se da una parte il Governo toglie ai liberi professionisti l’unica “arma” (il tariffario) che li metta al riparo dal progressivo svilimento della loro prestazione, dall’altra lo stesso Governo chiede loro di investire tempo e denaro per “certificare” le loro competenze professionali. Ed è proprio per questo che sono d’accordo con quanto scritto da Pieruigi Magnaschi su Italia Oggi: “Al di là delle derive affaristico-burocratiche (che pure ci sono e sono evidentissime) i corsi per professionisti sono un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti. Un professionista, di solito, è laureato. Sempre di solito, ha dovuto sostenere esami di abilitazione per accedere alla professione. Dopo di che, si suppone che abbia la voglia e gli strumenti per procedere alla sua educazione permanente, nei modi e nei tempi da lui autonomamente scelti: o partecipando ai corsi che vuole (senza bisogno che essi siano forniti di bollini certificativi), o studiando in vario modo (nel 2013 l’e learning è a portata di mano di tutti) o crescendo con i colleghi sul posto di lavoro”.

Nel suo articolo, Magnaschi aggiunge, anche, che “In caso contrario, si accetta un processo di bambinificazione che umilia i professionisti, mettendoli a bàlia, senza peraltro arricchirli. Una legge di questo tipo è da socialismo reale, non da società libera di tipo occidentale dove l’ordine deve sancire i comportamenti deleteri dei suoi iscritti ma non deve certo contribuire alla loro formazione tecnica. E poi bisogna lasciare al mercato il compito di decidere quali sono i professionisti che valgono, che, non a caso, sono pagati di più e/o sono utilizzati di più. Il mercato, quello privato intendo, essendo rappresentato da coloro che sganciano l’euro (esercizio, questo, doloroso per tutti), è lo strumento corretto, attento e costante nella valutazione di qualsiasi professionista”.

Ma con ogni probabilità, quello della formazione continua è stato un vero e proprio “contentino” dato agli Ordini professionali per giustificare la loro esistenza, visto che con il trasferimento ai Consigli di disciplina delle questioni deontologiche e con la cancellazione delle tariffe professionali è venuto meno il ruolo fondamentale previsto dalla legge n. 1395/1923.

Crediamo davvero che un seminario sull’abusivismo edilizio o sulle opere pubbliche sia veramente idoneo a certificare la formazione professionale di un ingegnere o di un architetto? O forse sono solo utili ad avere i crediti necessari per evitare il provvedimento disciplinare?

Sarebbe più giusto chiedersi se, oggi, in sostituzione ad un’obbligatorietà di iscrizione agli Ordini professionali, non sia corretto pensare a situazioni più europee e più adatte alle diverse odierne condizioni professionali.

A cura di arch. Paolo Oreto

 

apr 04 2014

Nuova Sabatini, 16mila richieste: verso il raddoppio risorse

Le imprese rispondono positivamente ai finanziamenti agevolati concessi dalla nuova Sabatini: nelle prime otto ore di operatività dell’agevolazione (attiva dal 31 marzo), sono arrivate 16mila richieste di prestito agevolato e contributo statale. Leggi il resto

mar 31 2014

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mar 28 2014

Sagre e concorrenza sleale. In arrivo in Umbria il ‘marchio di validità’ per le sagre

La questione delle sagre e della concorrenza sleale nei confronti dei ristoranti si ripresenta puntuale, in Italia, ad ogni estate. La giunta regionale dell’Umbria ha ora adottato un disegno di legge che introduce regole più severe per le sagre e che potrà servire da esempio per tutte le altre regioni.

Qui su Universofood ci siamo già occupati del problema delle sagre, e delle continue proteste della Fipe e di Confcommercio contro quella che è a tutti gli effetti una forma di concorrenza sleale. Il punto è questo: ogni anno in Italia si svolgono – concentrate per l’80% nei mesi estivi – circa 32.000 sagre, cioè una media di quattro per ogni comune (in Italia ci sono 8.057 comuni); c’è quindi una fortissima concorrenza delle sagre nei confronti di bar e ristoranti, soprattutto nelle zone turistiche (secondo le stime della Fipe in Toscana le sagre toglierebbero ogni estate addirittura il 25% di fatturato a bar e ristoranti!) e soprattutto quando (spesso) le sagre offrono diverse centinaia di “coperti” e si succedono in una stessa località senza soluzione di continuità protraendosi per settimane e configurandosi in sostanza come un’attività stagionale di bar e ristorazione in una piazza o area all’aperto; la concorrenza delle sagre nei confronti di bar e ristoranti è sleale perché le sagre non rispettano gli stessi requisiti cui sono invece sottoposti i bar e i ristoranti, sia in materia fiscale (non devono dare stipendi al personale e non devono pagare le tasse, a parte quelle sui rifiuti – peraltro in genere concesse a una cifra forfettaria) sia per quanto riguarda le regole sul lavoro e le regole igienico-sanitarie, e possono quindi offrire cibi e bevande a prezzi anche di molto inferiori a quelli dei bar e ristoranti che si trovano a pochi metri di distanza, anche perché oltretutto le sagre propongono in genere prodotti di bassa qualità (e costo), assai di rado legati alle aziende agricole del territorio.

La giunta regionale dell’Umbra – dopo le proteste sempre più veementi dello scorso anno da parte dei ristoratori umbri – ha ora preadottato un disegno di legge, che – sia pure in maniera ancora alquanto blanda – introduce alcune regole per le sagre. La Regione Umbria ha in sostanza stabilito il limite massimo di dieci giorni per la somministrazione di bevande e alimenti nell’ambito delle feste popolari e delle sagre, e ha creato un marchio – “Sagra Tipica dell’Umbria” – che sarà concesso soltanto alle sagre che propongono prodotti alimentari provenienti per almeno il 40% dall’elenco regionale dei prodotti agroalimentari tradizionali e classificati come Dop, Igp, Doc e Docg dalla Regione Umbria (il che significa che le sagre porteranno introiti ai produttori agricoli e agroalimentari locali e avranno comunque maggiore difficoltà a tenere i prezzi molto bassi per la necessità di mantenere degli alti standard qualitativi nella scelta dei prodotti).

mar 23 2014

Il 2013 l’anno orribile per l’Umbria: l’economista Sacchi analizza la crisi di casa nostra „

Sullo stato dell’economia umbra del professor Sergio Sacchi, docente presso il Dipartimento di Economia, Finanza e Statistica dell’Università di Perugia. L’analisi è stata redatta alla luce dell’ultima indagine congiunturale diffusa da Unioncamere Umbria.

Il quarto trimestre 2013 chiude un anno difficile e controverso così che questo commento guarderà all’insieme dei dodici mesi appena trascorsi piuttosto che all’ultimo trimestre. L’intento è quello di mettere in luce le sorprese contenute nell’indagine congiunturale e nel cruscotto statistico di Unioncamere Umbria.

La prima riguarda lo stock di imprese: in apparenza tra l’inizio e la fine dell’anno non vi è molta differenza. Il numero delle imprese attive, infatti, flette di poco più di un punto percentuale (- 1,3%): in coda ad un lungo periodo recessivo, con la domanda delle famiglie in regresso, i finanziamenti bancari diventati oggetti di conversazione e gli investimenti in obbligata pausa di riflessione, che non ci sia stata la paventata ritirata e, anzi, sia addirittura aumentato il numero delle unità locali, è certamente fatto inatteso.

E questo è ciò che si percepisce con immediatezza in superficie. Tuttavia il fuoco sta ancora covando sotto la cenere: lo rivelano i dati, così come li riporta il nuovo Cruscotto Statistico, sull’aumento del numero di imprese in scioglimento e liquidazione (+ 2,8%) e di quelle sottoposte a procedure concorsuali (+ 2,5%). Lo confermano, ma non è una novità, i dati sullo stock di addetti in un campione abbastanza consistente (73%) di imprese: si stima, infatti, una flessione complessiva di quasi 5 punti percentuali dell’occupazione totale e di oltre 6 punti percentuali se ci si sofferma a considerare il dato relativo agli addetti alle dipendenze.

L’approfondimento di questi dati generali aiuta a percepire come le difficoltà del tessuto imprenditoriale si colleghino da un lato al tipo di forme societarie maggiormente rappresentate e, dall’altro, alla composizione settoriale delle medesime. E aiuta anche a spiegare la netta divaricazione di opinioni e aspettative ovvero il fatto che mentre le imprese industriali si mantengono in prudente attesa ma con numerose sortite verso i territori del marketing, della razionalizzazione interna o della ricerca di nuovi mercati le imprese del terziario esprimono una maggior rassegnazione ed un più cupo pessimismo.

Tornando alla prima dimensione (articolazione delle forme societarie) si vede, ad esempio, che il numero delle società di capitali continua ad aumentare. Ma l’incidenza delle stesse sul totale resta inferiore rispetto a quanto si registra su scala nazionale e, per di più, il distacco appare in aumento, per effetto di una maggiore velocità di sviluppo delle società di capitali nelle altre regioni. Simmetricamente si registra il peso più accentuato, in Umbria, delle imprese individuali.

Guardando la composizione settoriale si nota una più estesa presenza di imprese agricole, che però nel tempo tendono a ridursi di numero, e una carenza di quelle fornitrici di servizi alle imprese, il cui numero tuttavia sta crescendo a ritmi sostenuti. Oltre che nel comparto agricolo la chiusura di imprese è elevata nel comparto delle costruzioni e dei trasporti e spedizioni.Il tutto si riflette nel dato di un particolarmente basso tasso di sopravvivenza delle imprese che viene confermato dal fatto che solo il 71% delle imprese presenti nel 2010 risultano ancora in attività alla fine del 2013.

La restante parte riepilogativa del Cruscotto permette di farsi una idea, sulla base dei dati dei bilanci delle società di capitali per il 2012, del quadro di debolezza generale che dovrebbe aver caratterizzato i risultati aziendali nel corso del 2013. In particolare, focalizzando lo sguardo sulle sole imprese presenti in tutto il periodo di analisi (il triennio 2010-2012) si ottengono i seguenti risultati:

1) una severa contrazione dei livelli produttivi e del valore aggiunto;

2) un crollo del livello degli utili ante-imposte;

3) il passaggio conseguente a fortemente negativi risultati netti (cioè dopo aver saldato i

conti col Fisco);

In condizioni del genere resta difficile ipotizzare una repentina risalita dei livelli di attività produttiva con beneficio sui conti aziendali: e dunque l’andamento del profilo hard, cioè del numero e del tipo di imprese, di cui si è detto sopra, finisce per alimentare proprio quel genere di debolezze che condiziona la struttura imprenditoriale e a cui si è fatto cenno poco sopra (cessazioni, liquidazioni, ecc.).

“La crisi non dà tregua alle imprese – ha detto di recente il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello – ma per fare le scelte che servono al Paese dobbiamo guardare a chi non si scoraggia, alla capacità del sistema produttivo di rigenerarsi puntando ai settori che offrono più opportunità. Dal turismo ai servizi passando per le produzioni che il mondo continua a premiare, come l’agroalimentare e alcuni comparti del nostro manifatturiero ad elevato contenuto tecnologico. Ma è sempre più dura andare avanti senza un mercato interno capace di sostenere consumi e occupazione.”

“Le imprese che continuano a nascere – ha aggiunto Dardanello – sono frutto di un’auto- imprenditorialità che va guardata con favore e sostenuta, soprattutto quando è espressione di saperi tradizionali e di quella cultura artigiana che oggi è in grandissima difficoltà. È quanto ho ripetuto proprio ieri alla commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato che sta

esaminando diversi disegni di legge sull’artigianato.”

“Dobbiamo alimentare il coraggio di chi fa impresa e ridare fiducia alle famiglie e a chi cerca lavoro – ha aggiunto il presidente di Unioncamere – e per farlo è indispensabile rafforzare le reti che costruiscono questa fiducia, a partire dalle istituzioni. È un impegno che le Camere di commercio stanno portando avanti insieme alle rappresentanze imprenditoriali, per migliorare la qualità dei servizi e la propria efficienza. Tutti dobbiamo e possiamo fare di più”. Nella prospettiva delineata può essere opportuno esaminare, a questo punto, la sequenza relativa al solo quarto trimestre, un trimestre che, come in trasparenza, permette di raccogliere le tendenze passate e, allo stesso tempo, di proiettare lo sguardo anche un po’ più avanti.

Lo sviluppo, come noto, si avvantaggia tanto dell’intensità del processo di accumulazione (incidenza degli investimenti reali) quanto del ricambio dei profili imprenditoriali presenti.Su entrambi questi aspetti vale la pena spendere alcune considerazioni.Per quanto riguarda gli investimenti l’indagine campionaria conferma che il 2013 è stato anno di gestione prudente e timorosa e che il 2014 lo sarà altrettanto. Alcuni dati di sostegno al giudizio piuttosto forte che abbiamo appena formulato. Il primo: oltre metà (quasi due terzi: 60,6%) delle imprese intervistate ammette di non aver effettuato, nel corso del 2013, alcuni investimento. Delle rimanenti la stragrande maggioranza dichiara di aver realizzato il minimo indispensabile, cioè investimenti di importo inferiore a 25 mila euro.

Scomponendo il dato aggregato si scopre che la disponibilità a investire è stata più sostenuta da parte delle imprese alimentari e di quelle meccaniche. Non è superfluo ricordare che, secondo tutti gli osservatori, sono stati questi due i settori relativamente più dinamici nel corso dell’ultimo anno. La disponibilità a investire, va ricordato, è stata più convinta da parte delle imprese più grandi che non da parte delle imprese più piccole e, in particolare, di quelle artigiane.

Il secondo dato che ci preme porre all’attenzione di chi legge questa nota di accompagnamento al materiale raccolto e organizzato da Unioncamere Umbria è relativo alla natura degli investimenti effettuati. Quasi due terzi delle imprese contattate, infatti, conferma il tradizionale modello di modernizzazione dei processi produttivi: l’acquisto di macchinari e attrezzature. Gli investimenti in marketing o in sistemi di elaborazione dati si rivelano sostenuti, non è certamente un caso, nei due settori già menzionati per altro aspetto: il settore alimentare e quello meccanico.

Abbastanza omogenea è la spesa per la formazione professionale che raggiunge le sue punte più elevate, il 23% e il 26%, in seno al comparto della moda e a quello della chimica.I dati non sono comparabili con altre regioni o con il dato nazionale e dunque impediscono di comprendere se il tono muscolare dell’apparato produttivo dell’Umbria è messo meglio o è più rilassato di quello medio italiano. Comunque, la mancanza di paletti di riferimento lascia più libertà nel collegare tra loro le indicazioni di cui si dispone.

Per l’aspetto rinnovamento dell’imprenditorialità l’analisi sembra conformarsi alla precedente nel lanciare il messaggio che forse si può fare di più. Sappiamo, infatti, che la normativa italiana ha da non molto introdotto delle semplificazioni pensate per aiutare a realizzare il sogno di diventare imprenditori. Nel complesso, sono stati oltre diecimila i giovani di meno di 35 anni che, nel corso del 2013, hanno colto al volo l’opportunità offerta dai provvedimenti legislativi (legge 24 marzo 2012, n. 27) e pertanto hanno portato a battesimo le cosiddette “Srl a un euro”, ovvero le società a responsabilità limitata semplificate.

In virtù della norma, divenuta pienamente operativa dal 29 agosto 2012, gli under 35 hanno avuto la possibilità di costituire un’impresa con un capitale sociale inferiore ai 10.000 euro e senza pagare le spese notarili, i diritti di segreteria dovuti alla Camera di commercio e l’imposta di bollo. Tuttavia, mentre in Italia le iscrizioni in questa specifica categoria (cioè: società a responsabilità limitata semplificata) da parte di titolari con meno di 35 anni sono state il 53,6% del totale sì che il corrispondente stock di imprese semplificate registrate si è mantenuto al 58,5% l’Umbria si è tenuta a distanza di cinque punti percentuali: fermandosi al 48% (contro 53,6%) per le iscrizioni e al 53,0% (contro 58,5%) per lo stock complessivo (incidenza di imprese under 35 sul totale delle semplificate registrate).

Anche sotto questo aspetto, pertanto, i dati rendono l’idea di quanto il 2013 sia stato pesante per l’Umbria: in totale, infatti, sappiamo che le imprese registrate guidate da giovani rappresentano il 9,6%; un valore solo di poco inferiore a quello delle regioni del Centro (10%) e non lontano da quello complessivo del Paese (10,8%). Si può pertanto concludere che tale leggero gap può tranquillamente essere associato al minor entusiasmo giovanile nell’accettare la sfida posta dall’agevolazione normativa prevista dalla legge n. 27. Con qualche iscrizione in più favorita dalle opportunità della semplificazione amministrativa, infatti, l’allineamento alla media nazionale sarebbe stato di fatto completo.

D’altra parte, l’aumento del numero di liquidazioni, fallimenti e ricorsi a procedure concorsuali non stempera il quadro delle difficoltà che si sono proiettate fino a includere il IV trimestre del 2013 nonostante la recente leggera ripresa delle iscrizioni nei registri camerali.Qualche mese addietro, presentando alla stampa gli “Scenari territoriali” di Unioncamere e Prometeia, i quali indicano per l’Umbria un ritorno alla crescita nel 2014 (con un incremento del PIL dell’0,8%), il Presidente di Unioncamere Umbria Giorgio Mencaroni ha rivolto all’opinione pubblica un invito alla cautela. Ha infatti sottolineato il fatto che “nel 2014 usciremo dalla recessione, ma forse non dalla crisi, che continuerà a produrre i suoi effetti anche per i prossimi 12 mesi … E sarà la domanda estera a giocare un ruolo importante nell’incoraggiare la ripresa regionale.”

Ci troviamo dunque di fronte a quello che il presidente di Unioncamere Umbria Giorgio Mencaroni ha ricordato essere inequivocabilmente poco più di un “superamento tecnico della recessione”. Per andare oltre quello spunto siamo convinti che sia essenziale battere entrambe le strade sopra ricordate: quella di una più robusta disponibilità a investire e quella del coinvolgimento di un numero crescente di giovani aspiranti imprenditori. Altrimenti si rischia di andare ben oltre la soglia dell’emergenza. Il cruscotto statistico di Unioncamere Umbria ci ricorda, come si è già detto, che il panel delle imprese attive tanto nel quarto trimestre del 2013 quanto nel corrispondente trimestre dell’anno precedente (2012) – un gruppo di quasi 55 mila imprese – segnala una perdita di occupazione (- 4,4%) più grave di quella (- 3,4%) registrata su scala nazionale e ci fa anche capire quanto il deludente risultato, da addebitare prevalentemente al venire meno delle micro imprese, possa essere associato all’appiattimento degli indici di vitalità imprenditoriale.

Pertanto, una scossa energica, che provenga o meno dal riconoscimento di una parte del territorio regionale come area di crisi complessa oppure derivi da una rinnovata attitudine allo svolgimento di attività imprenditoriali o anche da una significativa estensione delle presenze sui mercati esteri sarà per lo meno salutare, se non proprio provvidenziale.

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