Categoria: discussione-settimana

giu 21 2013

Coordinatori della sicurezza, dagli architetti di Roma precisazioni sull’aggiornamento obbligatorio

Cosa accade se il coordinatore per la sicurezza non è riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro la data del 15 maggio 2013? È possibile riprendere l’attività dopo un aggiornamento tardivo?

Il quesito, presentato dal CNA in un interpello al Ministero del Lavoro, finora non ha avuto risposta. L’interpretazione del CNI

Secondo l’interpretazione del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni), espressa con la circolare n. 210 del 3 maggio 2013 (leggi tutto), se il professionista non riesce ad effettuare il prescritto corso di aggiornamento entro la data del 15 maggio 2013, non sarà più abilitato a ricoprire il ruolo di Coordinatore per la sicurezza e questo fino a quando non avrà espletato gli aggiornamenti previsti. Ciò non significa che perderà la formazione acquisita, ma soltanto che non sarà in grado di esercitare le proprie funzioni, che saranno “sospese” fino a quando egli non completerà l’aggiornamento per il monte ore mancante.

Precisazioni dall’Ordine degli architetti di Roma

Questa interpretazione “non può naturalmente fare testo”, precisa la Fondazione Antonino Terranova dell’Ordine degli architetti di Roma e provincia, in una comunicazione – che pubblichiamo di seguito – rivolta ai colleghi con corso abilitante di 120 ore ma che non hanno seguito un corso aggiornamento obbligatorio di 40 ore entro il 15 maggio 2013.

“Il D.Lgs 81/08 prescriveva, per coloro che si erano abilitati a svolgere incarichi di Coordinatore per la sicurezza a norma della legge 494/96, un aggiornamento obbligatorio di 40 ore entro 5 anni dall’uscita del D.Lgs, precisamente entro il 15 maggio 2013.

Nel testo non è specificata la posizione di chi non si aggiornava in tempo; non si sa, quindi, se, in questo caso, l’abilitazione viene resa inefficace e dunque è necessario, per svolgere l’incarico di coordinatore rifrequentare il corso abilitante di 120 ore, o se si è semplicemente sospesi dalla possibilità di assumere incarichi finché non ci si aggiorna.

Si tratta di materia molto delicata che coinvolge la possibilità di lavoro per molti professionisti, per questa ragione il CNA ha presentato un interpello al Ministero competente per avere l’interpretazione autentica del disposto di legge sulla possibilità effettiva di riprendere l’attività dopo un aggiornamento, sia pure tardivo. Il quesito non ha avuto ancora risposta, e a nulla valgono le prese di posizione e/o interpretazioni (prevalentemente da parte dagli ordini degli ingegneri) che naturalmente non possono fare testo.

In attesa dei chiarimenti da parte del Ministero, per evitare agli iscritti spese che potrebbero risultare inutili, si sconsiglia a quanti non hanno rispettato la scadenza del 15 maggio, di frequentare corsi di aggiornamento della cui efficacia non si hanno certezze.”

giu 01 2013

3 mln professionisti senza tutele sociali

“Penso che noi veramente paghiamo lo scotto di essere liberi professionisti, siamo quasi 3 milioni di italiani senza tutele”.A dirlo, a Labitalia, è Emiliana Alessandrucci, neo-presidente del Colap, il coordinamento delle libere associazioni professionali, che raccoglie i professionisti non iscritti ad albi e collegi e oggi regolamentati dalla legge 4/2013. “Paghiamo un Inps altissimo -contesta Alessandrucci- e non abbiamo assolutamente nessuna tutela sociale in cambio. La prima cosa che si dovrebbe fare è intervenire sulla Gestione separata dell’Inps. Nella libera professione l’Inps è essenzialmente a carico del professionista”. Secondo Alessandrucci, “facendo una piccola ricerca, esce fuori che, ad esempio, per l’ordine degli architetti, se sei un neo iscritto, paghi circa il 7% per i primi anni”. “Un internal design, architetto d’interni, paga invece -avverte- il 27% e quindi o fa la fame per arrivare a una tariffa comparabile, oppure hai una tariffa talmente alta che non sei sul mercato. E credo che questa sia la prima cosa da verificare, il primo grande passaggio”.Successivamente, secondo Alessandrucci, “i nostri professionisti avrebbero diritto a una cassa previdenziale propria, o perlomeno, con la liberalizzazione delle casse previdenziali, bisognerebbe lasciare la possibilità a ognuno di scegliere quella che meglio risponde alle proprie esigenze, perchè questo creerebbe anche un miglioramento dei servizi resi dalle casse previdenziali. Ma credo che dovremo aspettare -conclude- per arrivare a questo obiettivo”.

mag 28 2013

Servizi di architettura e di ingegneria: Bandi ad hoc solo per pochi

Consigli nazionali di otto professioni tecniche(agrotecnici, architetti, dottori agronomi e dottori forestali, geologi, geometri, ingegneri, periti agrari, periti industriali) in due note inviate all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ed al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha evidenziato come oltre il 97% degli studi professionali sia fuori dal mercato dei lavori pubblici.

Le professioni tecniche fanno rilevare come dai dati censiti dall’Agenzia delle Entrate per il monitoraggio e per l’applicazione degli studi di settore relativi al periodo di imposta 2010 (antecedente alla c.d. “crisi economica”), emerge che il numero medio di strutture professionali (seppur comprese le società di ingegneria) con n. 1 “addetto” è pari all’84,5%. Per numero di addetti da 1 a 3, la percentuale è pari al 10,5%; per numero di addetti da 3 a 5, è pari al 2,3%, mentre per un numero di addetti da 5 a 10 è pari a 1,7%.

Tale situazione legata ai vincoli imposti dall’articolo 263, comma 1, lettera c) del regolamento di attuazione del Codice dei contratti di cui al D.P.R. n. 207/2010 che prevede che le stazioni appaltanti, nella predisposizione del bando per gli affidamenti di servizi di architettura e di ingegneria, fissino tra i requisiti tecnico-economici necessari per partecipare alla gara il numero medio di personale tecnico utilizzato negli ultimi tre anni in misura variabile da 2 a 3 volte le unità stimate nel bando per lo svolgimento dell’incarico genera il fatto che per il 97,3% dei professionisti è impossibile partecipare alle gare.
Basta che la stazione appaltante preveda per il servizio siano necessarie soltanto tre unità (lavori di importo medio-basso) che, utilizzando anche un moltiplicatore 2, il bando debba prevedere un numero medio di personale utilizzato negli ultimi tre anni pari a 6 e con tale situazione si registra di fatto una chiusura del mercato mediamente pari al 97,3% (84,5 + 10,5 + 2,3), nei confronti dei giovani e comunque dei liberi professionisti singoli o delle stesse società e/o strutture professionali con un numero di “addetti” non superiore a 5.

I Consigli nazionali affermato, quindi, che il mercato dei lavori pubblici è, in pratica, con buona pace di quella concorrenza sbandierata dal Diritto comunitario e dal Codice dei contratti,riservato alle grosse società di professionisti, società di ingegneria e/o consorzi stabili.
Ricordiamo, per altro, che il Codice dei contratti al comma 1 bis dell’art. 2 precisa che i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere le piccole e medie imprese.

Nella nota inviata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, i consigli nazionali chiedono:

  • un intervento in merito all’art. 263 del DPR 5 ottobre 2010, n. 207, poiché tale norma determina distorsioni della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato, in violazione alle norme a tutela della concorrenza e del mercato;
  • di segnalare al Governo e al Parlamento gli effetti distorsivi al mercato e di esprimere un parere circa le iniziative necessarie per rimuovere o prevenire le distorsioni anticoncorrenziali derivanti dall’applicazione del predetto art. 263 del DPR 207/2010.

Nella nota indirizzata al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti è richiesta l’introduzione di alcune modifiche alle norme, al fine di conseguire i seguenti obiettivi:

  • riaprire il mercato ai giovani e ai professionisti che non siano titolari di strutture professionali di notevoli dimensioni;
  • rilanciare la procedura del concorso (di idee o di progettazione);
  • garantire maggiore trasparenza nella composizione delle commissioni giudicatrici per quelle procedure di affidamento caratterizzate da una notevole discrezionalità (offerta economicamente più vantaggiosa, concorsi, ecc.);
  • ridurre i ribassi eccessivi dei compensi, che oggi sfiorano e talvolta superano la soglia dell’80%.

 

mag 28 2013

Salvo Garofalo, presidente Inarsind, interviene sugli aumenti dei contributi minimi di Inarcassa

Il malcontento scatenato dall’aumento dei contributi minimi da versare a Inarcassa con la riforma previdenziale in vigore dal 1° gennaio di quest’anno prende le mosse da un momento assolutamente critico per la libera professione di architetto e ingegnere, ma è di fatto sintomo di un male molto più grave e profondo in cui da anni versa la categoria”. È quanto afferma Salvo Garofalo, presidente di Inarsind, il sindacato degli architetti e degli ingegneri liberi professionisti, commentando gli aumenti dei contributi minimi di Inarcassa. Il sindacato non condivide gli attacchi alla cassa di previdenza, visto che gli aumenti sono una conseguenza della riforma previdenziale e ha delle proposte da fare sulla gestione di Inarcassa, ponendo l’accento sul problema di base: creare occasioni di lavoro per i giovani professionisti. “Indubbiamente tale tipo di aumento – continua la nota – in un momento di crisi come l’attuale, pesa particolarmente sui giovani anche se i contributi per i primi tre anni di iscrizione ed entro i 35 anni di età sono pagati per il 50% ma valgono come pagati per intero a seguito di una permanenza in Inarcassa di almeno 25 anni. La riforma previdenziale, voluta dal ministro Fornero per garantire la sostenibilità delle Casse, mette dunque alla prova la sostenibilità della libera professione: ogni architetto o ingegnere il 1° gennaio di ogni anno si trova già un fardello di circa 5.000 euro da pagare a prescindere o meno se quell’anno fatturerà in modo sufficiente non a guadagnare ma a coprire le spese: il contributo minimo Inarcassa, l’assicurazione obbligatoria e i costi della formazione obbligatoria”. “A nostro avviso – continua Garofalo – il problema fondamentale non è però ridurre i pagamenti a Inarcassa dei neoiscritti, che peraltro ne avrebbero poi un danno dal punto di vista previdenziale, perché non ci sono i redditi, ma consentire ai liberi professionisti di averli questi redditi! Quindi al là di tutte le possibili misure e dilazioni di pagamento che si possono mettere in campo occorre creare delle vere occasioni di lavoro. Dal punto di vista economico Inarcassa, costituita solo da liberi professionisti, ha ben compreso il problema, tant’è che in questi giorni ha deliberato una linea di credito di 150 milioni di euro – immediatamente disponibile, senza garanzie e rimborsabile in tre anni – per consentire la rateazione dei debiti contributivi dei colleghi in difficoltà”. “In particolare ha pensato ai giovani iscritti con un reddito sino a 15.000 euro che potranno beneficiare di una dilazione specifica fissa a tre anni, con un tasso del 3% – che consentirà di rateizzare un terzo dei 2.900 euro di contributi minimi portando la scadenza al 2016, congelando di fatto l’aumento creato dalla riforma e consentendo all’iscritto di non perdere anni preziosi per la sua futura pensione”. “D’altra parte va detto – continua il presidente Inarsind – che con il sistema contributivo ogni diminuzione di quanto versato – oltre il minimo collegato all’assistenza – non comporta maggiori oneri per Inarcassa mentre, di contro, fa rischiare al professionista di avere a fine carriera una pensione talmente bassa da rendere insostenibile la sua vecchiaia”. “In definitiva non condividiamo i recenti attacchi alla nostra cassa che fa quel che può rendendosi conto delle difficoltà in cui versano i liberi professionisti, anche se riteniamo che con il nuovo sistema occorra mirare ai migliori rendimenti possibili che influiscano direttamente sulle prestazione previdenziali degli iscritti. Per questo è necessario ridurre drasticamente le spese di gestione e quindi via alla radicale riduzione dei numero dei delegati (230 per 160.000 iscritti), via spese inutili e improduttive come quelle per la Fondazione e Inarcommunity che negli anni hanno dimostrato solo di essere una fonte di spese: si pensi, invece, a una struttura amministrativa più snella e ‘performante’ possibile”. “Riduciamo al massimo i costi dell’organizzazione e destiniamo i risparmi non allo “Stato sprecone”, come voleva il governo Monti, ma alla previdenza e all’assistenza dei nostri giovani colleghi che, al perdurare di questa tragica crisi economica, rischiano di essere espulsi definitivamente dalla libera professione”. Garofalo conclude ricordando la necessità, ormai improrogabile proprio per rendere sostenibile la libera professione prima e la previdenza poi, “di abolire ogni forma di doppio lavoro di dipendenti e docenti che fanno la libera professione “a lato” di un’altra attività già retribuita e già fonte di un altro trattamento previdenziale perché solo così i giovani potranno avere un reddito accettabile e pagare i contributi minimi necessari per avere una pensione decente”. In un momento di difficoltà come quello che stiamo vivendo è necessaria chiarezza e trasparenza su tutto ciò che riguarda la categoria, ed è ciò che Inarsind intende promuovere anche mediante un incontro sulla riforma previdenziale e sui rapporti con Inarcassa in programma a breve, in cui sviluppare un confronto tra i colleghi, giovani o meno, e gli addetti ai lavori che esprimono posizioni differenti sulla riforma per proporre insieme delle azioni che possano restituire redditi, dignità e identità ai liberi professionisti.

mag 22 2013

No all’aumento dei contributi minimi di INARCASSA a 3000€ FIRMA LA PETIZIONE

Per l’anno 2013 i contributi minimi per gli iscritti ad INARCASSA, cioè architetti ed ingegneri, saliranno complessivamente a 2.910 Euro, con un incremento di quasi mille Euro rispetto al 2012.

In dettaglio i contributi saranno di 2.250 Euro per il soggettivo e di 660 Euro per l’integrativo, oltre naturalmente al 4% che ogni professionista deve inserire in ogni fattura.

Inoltre, dal 1° gennaio 2013 il contributo integrativo (cioè l’aliquota del 4% da inserire in fattura) è dovuto anche sui corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate in favore di colleghi ingegneri ed architetti.

In questo momento di profonda crisi, in particolare per il settore delle costruzioni, un aumento del 50% dei contributi previdenziali è una misura iniqua nei confronti di una categoria di professionisti che sta già pagando gravemente le difficoltà in cui versa tale settore.

Discutiamo su come riformare SERIAMENTE la previdenza, ma questa riforma che danneggia le fasce di reddito più basse non la vogliamo.

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mag 17 2013

Esodati e indigenti. Chi tutelare per primi?

Un “esodato” é un dipendente anziano di un’azienda in crisi che a fronte di un accordo sindacale non viene licenziato, ma viene tolto dal suo posto di lavoro in esubero, con la garanzia di un salario seppure ridotto, fino al raggiungimento dell’età pensionabile.

In questo modo al licenziamento “secco” si sostituisce un’uscita “morbida” che consente all’impresa in crisi o in ristrutturazione di ridurre i costi del personale e quindi attivare l’azione di risanamento che si prefiggeva, ovvero di “salvare” il posto di lavoro di chi resta.

Di converso questo tipo di accordo sindacale aumenta i costi sociali a carico di tutti gli altri lavoratori.

Con la riforma Fornero, che ha spostato i termini dell’età pensionabile, si è creato il problema di coprire i costi che lo stato avrebbe dovuto sostenere per garantire una seppur minima retribuzione a questo considerevole numero di lavoratori.

Molti si sono impegnati a cercare le risorse mancanti, poche le autocritiche sulla bontà della soluzione attivata per “salvare” le aziende in crisi e “convincere” i lavoratori che avrebbero dovuto essere licenziati.

Torneremo sull’argomento perché la soluzione di scaricare i costi dei licenziati sulla collettività nascondeva una concezione dell’economia distorta che ora piano piano si manifesta nella sua evidenza, visto che, per salvare qualche azienda decotta, ora si stanno mettendo a rischio i conti dello Stato e quindi tutte le altre.

Ma torniamo agli esodati. Prima di proseguire nel ragionamento dobbiamo fare una premessa: un principio è giusto se vale per tutti coloro che si trovano nelle medesime situazioni ed è ingiusto di converso se vale solo per alcuni “privilegiati”.

Se la riforma crea problemi seri a tutte quelle persone che sono troppo vecchie per trovare una nuova collocazione e troppo giovani per andare in pensione, allora non si comprende perché debba esserci una discriminazione tra quelle che hanno perso il lavoro perché hanno concordato coi sindacati la loro uscita dall’azienda in crisi, da quelli che invece, nonostante abbiano la stessa età, vengano licenziati da piccole imprese artigiane al di fuori di accordi sindacali.

Il principio di solidarietà non può riguardare solo gli esodati delle grandi aziende. L’allungamento dell’età pensionabile è un problema di TUTTI i lavoratori, non solo degli esodati.

Il discrimine per il riconoscimento del sussidio statale non dovrebbe riguardare chi è esodato e chi invece non lo é, ma tra chi é indigente e chi non lo é.

In altri termini, se uno è stato licenziato o meno non c’entra nulla col bisogno legato alla sopravvivenza che può riguardare anche un anziano o un giovane indigente, seppure non abbia mai lavorato.

Il problema quindi diviene più generale, grande e complesso e travalica nella politica sociale che dovrebbe essere attivata per sostenere le famiglie più “deboli” e non circoscritto ai lavoratori che hanno perso il lavoro e tantomeno solo quelli delle grandi aziende.

Limitare il problema degli esodati ai soli esodati non solo é restrittivo, perché risolve il problema solo per alcuni (tra l’altro spesso alcuni esodati potrebbero avere altri redditi o addirittura essere componenti di famiglie con doppio o triplo stipendio) ma anche ingiusto perché non tratta tutti i lavoratori allo stesso modo.

Il problema vero, ovvero della solidarietà sociale resta, anzi si acuisce, perché crea disuguaglianze tra lavoratori.

Ora si punta a rifinanziare i cassaintegrati delle grandi aziende senza alcun riferimento ai redditi complessivi familiari come se esodato equivalesse a “indigente”.

E i commercianti, i professionisti, gli artigiani e i piccoli imprenditori falliti e i loro dipendenti, e i pensionati e i giovani disoccupati?

Ancora una volta i sindacati cercano di tutelare prioritariamente i loro iscritti dimenticandosi il criterio di equità e giustizia, ma così facendo si sta creando le premesse per una pericolosa frattura sociale che mette i lavoratori gli uni contro gli altri e mina alla radice il concetto di solidarietà.

Bisognerebbe quindi distinguere tra Stato sociale dinamiche economiche. Le aziende decotte che non stanno sul mercato vanno chiuse, se non altro per dare spazio alle altre che restano. Chi perde il lavoro, qualunque sia l’azienda che lo licenzia e qualunque sia il motivo, dovrebbe trovare uno Stato che dia una mano al suo nucleo familiare almeno per sopravvivere, fintanto che un membro trovi un altro posto di lavoro o delle risorse che consentano di fare a meno del sussidio statale. Non si può lasciare la gente sulla strada solo perché non gode di un accordo sindacale.

Si dice che non ci sarebbero risorse per tutti. Questo é vero ma solo se i sussidi fossero distribuiti secondo criteri errati e non invece secondo la reale necessità dei cittadini meno abbienti come avverrebbe con la tutela a spada tratta dei soli esodati che toglierebbero risorse ai più indigenti.

E’ necessario rivedere la politica di assistenza sociale mettendo al primo posto le famiglie indigenti qualunque sia la ragione della loro indigenza.

apr 30 2013

TEMA IN DISCUSSIONE

I COORDINATORI ABILITATI DA PIU’ DI 5 ANNI CHE NON SI AGGIORNASSERO IN TEMPO POTREBBERO PERDERE LA POSSIBILITÀ DI ESPLETARE LA FUNZIONE PER IL SUCCESSIVO QUINQUENNIO?


Per espletare la funzione di coordinatore, tranne che nei casi particolari puntualmente indicati dal legislatore, si richiede una formazione scolastica di base e una formazione integrativa specifica (corso da 120 ore) purché realizzata coi vincoli e i contenuti espressamente indicati all’Art 98 e all’ ALL XIV del D.gs. 81/2008 e ss mm e ii.

Mancando anche uno solo dei requisiti, verrebbe meno una condizione essenziale per la validità del titolo abilitativo e il soggetto non potrebbe esercitare la funzione di coordinatore della sicurezza. Il legislatore all’ultimo capoverso dell’Allegato XIV impone però un’altra condizione per la validità del percorso abilitante, da fare valere in generale nei confronti dei coordinatori che avessero compiuto l’iter abilitante dopo l’entrata in vigore del DLgs ( 15 Maggio 2008) e a partire da tale data, per coloro che lo avessero concluso prima.

Mi riferisco all’“OBBLIGO di AGGIORNAMENTO A CADENZA QUINQUENNALE della durata complessiva di 40 ore” In altri termini, per mantenere attiva la funzione di coordinatore, dopo 5 anni dal conseguimento della abilitazione originaria (corso da 120 ore o laurea), non basta possedere i requisiti elencati in precedenza, ma bisogna possedere anche una documentazione che dimostri di aver frequentato “aggiornamenti” professionali di almeno 40 ore nel quinquennio successivo alla abilitazione (non una di meno, essendo il margine del 10% consentito solo per la formazione abilitante).

I coordinatori che facessero trascorrere cinque anni dall’abilitazione o, se abilitati prima del 15 Maggio 2008, dalla data di entrata in vigore del DLgs 81/2009, senza effettuare alcun aggiornamento professionale nei modi di legge (corsi e partecipazione a convegni e seminari) non possiederebbero uno dei requisiti essenziali,  nonostante resti valido l’attestato del corso da 120 ore e quindi, mancando un requisito obbligatorio  non potrebbero esercitare la funzione di coordinatore nel quinquennio successivo. A mio avviso il legislatore ha usato parole chiare che lasciano pochi margini interpretativi: ” E’ inoltre previsto l’OBBLIGO di aggiornamento a cadenza quinquennale della durata complessiva di 40 ore”.

La parola “Inoltre” sta ad indicare un requisito aggiuntivo a quelli già descritti; “Obbligo” ovvero l’ inderogabilità vincolante del requisito; “Aggiornamento” ovvero le nuove azioni informative connesse alle modifiche normative o tecniche riguardanti i contenuti del percorso formativo già espletato; “ Cadenza quinquennale” ovvero periodi quinquennali compresi dalla assunzione del titolo abilitante ai cinque anni successivi; “Cadenza” Ovvero che i periodi quinquennali devono essere conteggiati consecutivamente l’uno all’altro in blocchi da 5 anni non frazionabili : “ 40 Ore” ovvero un tempo preciso.

Chi si “aggiorna” in periodi diversi a cadenze diverse, o in tempi e contenuti diversi da quelli indicati dal legislatore perderebbe uno dei requisiti per espletare le funzioni di coordinatore essendo i requisiti obbligatori. Ma come si potrebbe riacquistare il requisito obbligatorio “dell’aver espletato aggiornamento di 40 ore nel quinquennio “se il quinquennio fosse già trascorso?  (Il Ministero del Lavoro su questo puto ha fornito una indicazione chiara sul fatto che i crediti formativi maturati (anche se in misura superiore a 40) hanno valore solo nel quinquennio di esercizio e non possono essere utilizzati (quelli in esubero) quali crediti nel quinquennio successivo (Vedi Chiarimento Ministero del lavoro – Divisione III – 08 marzo 2013) , resterebbe confermato per analogia, il concetto opposto, ovvero che se l’azione formativa di 40 ore fosse espletate a posteriori non potrebbe valere per il quinquennio precedente e quindi resterebbe comunque incompleta la formazione nel quinquennio per chi non la avesse espletata completamente nel periodo. Mancherebbe per sempre uno dei requisiti obbligatori per espletare le funzioni di coordinatore che, stante l’attuale dettato normativo, non potrebbe più essere acquisito.

Ne consegue logicamente che chi non termina l’aggiornamento obbligatorio entro i termini, perderebbe la possibilità di espletare la funzione dei coordinatore per il quinquennio seguente. Ecco perché la scadenza del 15 Maggio prossimo è importante. O quantomeno è importante chiarire questo punto. Dalla lettura del dettato normativo, si dedurrebbe che, chi, al termine del quinquennio, non possedesse attestati di aggiornamento “validi” per un totale di almeno 40 ore, mancherebbe di un requisito essenziale per la validità del titolo abilitativo, e quindi non potendo frequentare corsi in date successive al quinquennio, che non potrebbero essere conteggiabili come se seguite nel quinquennio, per riottenere la abilitazione dovrebbe riattivare l’iter e frequentare nuovamente l’intero corso di 120 ore o attendere che trascorra la seconda“cadenza quinquennale” durante la quale espletare l’aggiornamento di legge, essendo insanabile retroattivamente quello appena trascorso. Sono gradite critiche e diverse interperetazioni

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