Categoria: discussione-settimana

giu 10 2014

Biomasse? Una brutta faccenda…

Coltivare consumando suolo, acqua, energia e risorse per poi…usare ciò che si è coltivato come combustibile: una faccenda che, fin dall’inizio, seppur sbandierata come la nuova frontiera dell’energia rinnovabile e sostenibile, lasciava dubbi enormi, poneva contraddizioni irrisolvibili. Una scelta che oggi sta mostrando tutti i suoi limiti.di Laura Lincesso.

Dopo il rapporto choc di Nomisma , secondo cui le biomasse risultano più inquinanti del gasolio, oltre che del gpl e del metano, restano pochi dubbi sulle contraddizioni che questa scelta di politica energetica si porta dietro. Anche le commissioni europee lo hanno ammesso: le biomasse di origine alimentare favoriscono la deforestazione, quindi ora vorrebbero indirizzare gli incentivi verso le biomasse di origine non alimentare (in sostanza i rifiuti e qui si potrebbe aprire un altro capitolo). Eppure si continuano a prevedere incentivi e si ha quasi la sensazione che la crisi del settore agricolo europeo possa trovare nelle agroenergie un nuovo sbocco produttivo. Finanziamenti pubblici in questo senso sono previsti anche dalla nuova Politica Agricola Comunitari(PAC) 2014-2020 per colture da “energia” quali: mais, barbietola, che possono essere trasformate in alcool, e colza, girasole, soia che possono essere trasformate in olio combustibile.

 E’ bene analizzare con senso critico la questione.

 Non ci sono solo il rapporto Nomisma e il parere delle commissione UE a mettere in allerta. Analisi energetiche di “sistema”, che considerano cioè tutta la filiera produttiva, dal costo energetico per la produzione di fertilizzanti e dei pesticidi al processo di trasformazione, forniscono risultati critici circa la sostenibilità di questo sistema produttivo. Da queste ricerche, svolte da specialisti del settore, la trasformazione di biomassa in bio-combustibili liquidi (bioalcol o biodisel) risulta essere inefficiente dal punto di vista energetico. Ad esempio, per produrre 100 unità energetiche di bioalcol da mais, il processo ne richiede circa il 30% in più; così come per ottenere 100 unità energetiche di biodisel da girasole ne servono 200 (il 100% in più). In laboratorio la trasformazione dell’amido di mais in alcol è un processo fattibile ed efficiente. Quando però si passa dal laboratorio alla realtà, dobbiamo tener presente che le cose si complicano. Molti altri criteri ed indicatori devono essere introdotti, per esempio tutti i costi energetici relativi alla produzione del mais e allo smaltimento dei residui, l’impatto ambientale di questa coltura, gli effetti sul sistema agroalimentare della trasformazione di grandi quantità di mais in combustibili.

 Ci sono però anche studi secondo cui se gli impianti a biomassa sono piccoli e utilizzano scarti o comunque si basano su una filiera corta, potrebbero avere qualche chance in più.

 Un altro aspetto è dato dal fatto che la produzione di agroenergia porta necessariamente all’adozione della monocoltura intensiva, quindi, con un grande uso di fertilizzanti e pesticidi e con un relativo impatto sul territorio che contrasta con gli stessi obiettivi della PAC in merito alla conservazione della qualità dell’ambiente, della biodiversità e della salute del suolo. Il rapporto indica che la conversione di colture alimentari in colture energetiche sta accelerando, e se questo processo rimane incontrollato, oltre che ad un notevole aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, avrà un impatto negativo anche sulla biodiversità e potrebbe causare un aumento netto delle emissioni di gas serra invece che una riduzione di queste (Gallagher, 2008).

 Il terzo elemento da considerare è che la produzione di agroenergie ha pesanti ricadute sociali poiché la trasformazione di queste colture di sussistenza in carburanti sta causando l’aumento dei prezzi degli alimenti con gravi ripercussioni sulla sicurezza alimentare delle popolazioni dei paesi poveri. Un rapporto riservato della Banca Mondiale scoperto e reso pubblico dal quotidiano britannico The Guardian (Chakrabortty, 2008), attesta che il 75% del rincaro dei prezzi degli alimenti di questi ultimi tempi (i prezzi sotto esame sono cresciuti del 120% tra il 2002 e il febbraio 2008) può essere imputato all’effetto delle politiche nazionali e internazionali sui biocarburanti. Fatte queste premesse, non si può non considerare nella definizione di una politica agroenergetica nazionale e globale, questioni come la sicurezza alimentare o l’impatto ambientale che queste produzioni hanno sugli ecosistemi. Infine, si dovrebbe anche rivedere la domanda di energia e quindi il sistema di consumi, cercando allo stesso tempo di investire in differenti energie alternative, quale il solare termico, soprattutto in quei paesi dove il sole abbonda, l’eolico, e il fotovoltaico, quest’ultimo ancora poco efficiente ma con possibili prospettive di miglioramento.

giu 07 2014

Come si vince un appalto in Italia?

Per vincere un appalto pubblico in Italia non basta sapere fare bene il proprio lavoro. Vincere un appalto è di per sé un lavoro che costa ore passate a compilare moduli, scartoffie e a studiare la normativa.

E non è sufficiente studiarla una volta per tutte: negli ultimi otto anni queste norme sono state modificate centinaia di volte e per altre migliaia di volte sono state interpretate da sentenze o circolari amministrative. Da anni numerose associazioni di categoria accusano questa situazione di essere divenuta un labirinto del quale è difficile trovare una via d’uscita. Si tratta di associazioni che in ogni caso avrebbero da guadagnarci da una semplificazione, ma nelle ultime settimane, mentre nuove inchieste della magistratura hanno colpito appalti e concessioni enormi, come quelle EXPO e MOSE, a queste voci se ne sono aggiunte parecchie altre che è difficile accusare di avere un interesse nella semplificazione.

Raffaello Cantone, presidente dell’Autorità nazionale contro la corruzione ha dichiarato in questi giorni che presto sarà introdotta una normativa più semplice e anglosassone: «Il nuovo Codice degli appalti verrà riscritto completamente e le attuali 600 norme verranno ridotte di due terzi». Dichiarazioni simili sono state fatte anche da Riccardo Nencini, vice-ministro dei trasporti. Ma le critiche più dure sono arrivate proprio dalla procura di Venezia, e in particolare dal procuratore aggiunto Carlo Nordio:«Se io dovessi dare un suggerimento al presidente del Consiglio che è giustamente preoccupato di quanto sta accadendo gli direi di lasciar stare le pene, le leggi penali, i nuovi reati, ci sono già, le pene sono già stratosferiche. Al primo ministro direi: non fate nuove leggi. Paradossalmente: diminuite le pene ma rendetele più efficaci e concrete, e soprattutto prevenite il reato semplificando le procedure».

Ma da dove arriva tutta questa complessità? Prima di tutto dal Codice dei contratti pubblici, a volte chiamato anche Codice degli appalti, che è composto da 273 articoli, 38 allegati e che è diviso in 1.500 commi. A questo si aggiunge il Regolamento di Attuazione del codice degli appalti, che aggiunge altri 350 articoli. In tutto, gli articoli da rispettare sono i 600 di cui ha parlato Cantone. Da quando è entrata in vigore nel 2006, il codice è stato modificato 564 volte e i suoi articoli sono stati oggetto di sentenze e pareri amministrativi per seimila volte. Naturalmente non basta conoscere a menadito tutti questi articoli e le relative modifiche per sapere esattamente come muoversi nel mondo degli appalti pubblici. Spesso questi articoli rimandano a loro volta ad altre norme e leggi, che possono essere piuttosto complesse. Ad esempio, il Testo unico sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro da solo è lungo 735 pagine. A questo bisogna aggiungere che enti diversi hanno una modulistica diversa per partecipare agli appalti. I moduli vanno compilati senza sbagliare nemmeno una virgola. Basta un errore relativamente piccolo e in caso di contenzioso il giudice può stabilire che l’ente non è tenuto a pagare un lavoro svolto. A questo vanno aggiunti altri adempimenti, come ad esempio il DURC, il documento con cui si attesta la regolarità contributiva dell’impresa (che, almeno ultimamente, è diventato più facile da ottenere) e i certificati antimafia.

Tutta questa mole di burocrazia è un costo in tempo e denaro per qualunque impresa, ma i gruppi più grandi – o le realtà piccole abituate a lavorare con un particolare committente – possono ammortizzare i costi e risolvere in parte i problemi. Per le piccole e medie imprese, che non possono permettersi consulenti o impiegati addetti soltanto a svolgere le pratiche burocratiche e rimanere al passo con i cambiamenti della normativa, spesso è semplicemente impossibile affrontare i costi che derivano dall’espletare questa burocrazia. Ma c’è anche un altro problema che deriva da questa incredibile complessità, come ha fatto notare il procuratore Nordio. Con delle leggi così bizantine è relativamente facile per un ente committente creare un bando di appalto complicatissimo, perfettamente corretto dal punto di vista legale, ma costruito in modo da far vincere soltanto l’impresa degli amici ed eliminare per qualche cavillo tutti i concorrenti.

Il volume della normativa italiana non ha paragone negli altri grandi paesi europei. In Francia il Code des marchés publics è composto da 294 articoli, la metà di quelli italiani. Inoltre la procedura per ottenere un appalto in Francia si svolge completamente su internet, tramite un unico portale, con procedure standardizzate e impiegati esperti che seguono la pratica dall’inizio alla fine. Da quando è entrato in vigore la sua ultima versione, nel 2006 (cioè lo stesso anno del suo equivalente italiano) è stato modificato soltanto una volta. Nel Regno Unito ci sono due codici principali, per un totale di cento articoli, che sono stati modificati dal 2006 ad oggi soltanto due volte: nel 2008 e nel 2011.

giu 05 2014

Istruzioni per la valutazione affidabilistica della sicurezza sismica di edifici esistenti – Riflessioni

Riporto nel seguito alcune brevi considerazioni sulle istruzioni CNR-DT 212/2013, viste dalla prospettiva di un ingegnere strutturista libero professionista.

Il valore scientifico del documento è, ovviamente, altissimo, ed il sottoscritto non ha certamente le competenze per giudicarlo nel dettaglio; mi preme però evidenziare alcuni concetti, a partire dalla premessa del documento stesso:

Di Andrea Barocci

- La conoscenza completa di un organismo esistente non è di fatto conseguibile e ciò richiede allo strutturista di sopperire con la propria esperienza alla carenza di informazioni, formulando ipotesi sull’organismo strutturale. Anche questo è un elemento di soggettività che introduce incertezza nell’esito della valutazione.

- Anche a parità di informazioni acquisite e di ipotesi sull’organismo strutturale, le scelte di modellazione e del metodo di analisi riflettono in misura sensibile l’esperienza e la qualità professionale dello strutturista, oltre che gli strumenti di calcolo a sua disposizione. Questo è un ulteriore, e molto importante elemento di differenziazione tra gli esiti di una verifica.

Quanto sopra esposto è sicuramente condivisibile e chiunque si occupi di progettazione strutturale ne è ben consapevole ogni giorno; a seguire, sempre nella premessa:

Esse [le istruzioni] sono state redatte con l’intenzione di non richiedere il possesso di particolari competenze specialistiche in termini di teoria dell’affidabilità. Per quanto riguarda invece la modellazione e l’analisi della risposta strutturale, poiché gli stati limite di maggiore interesse sono caratterizzati da livelli di danno strutturale elevati, anche prossimi al collasso, l’applicazione delle Istruzioni richiede la simulazione del comportamento non lineare di elementi in c.a. e muratura, che presuppone conoscenze teoriche ed esperienza d’uso di idonei codici di calcolo.

Ecco, da qui in poi le opinioni cominciano a divergere. Il nodo principale, a mio avviso, sta nell’obbligatorietà ad utilizzare analisi non lineari e modelli “a telaio”. Ovviamente, per i due casi di studio riportati in allegato al documento CNR, tale tipo di analisi è semplice, ma parlando di “edifici esistenti”, è necessario essere consapevoli che l’esempio proposto ne rappresenta solo una minima parte.

Soprattutto per la muratura:

- Non è scontato avere “maschi murari”; spesso si hanno aperture non incolonnate e azioni che per arrivare a terra gareggiano su un percorso ad ostacoli.

- Non è scontato avere piani rigidi; in questi casi, come si può utilizzare l’analisi statica non lineare per determinare il “legame costitutivo non lineare di uno o più oscillatori semplici”?

- Non è scontato avere un comportamento globale; spesso sono i meccanismi locali a dettare legge, molto prima del manifestarsi timidamente della famosa “scatola”.

- Cosa ne facciamo degli aggregati, croce e delizia di tutti i nostri centri storici?

Più in generale, mi sembra che a fronte di una lucida interpretazione del problema riportata nelle prima parte dell’introduzione al documento, a seguire si sia scelta una purezza accademica che difficilmente può trovare riscontro nelle problematiche strutturali ordinarie (per intenderci, quelle che ogni professionista si trova ad affrontare ogni giorno).

Aggiungiamo a questo l’utilizzo dei codici di calcolo.

Facciamo l’ipotesi che tutti i professionisti utilizzino lo stesso software per modellare e verificare i due esempi proposti in allegato alle istruzioni CNR. E’ nota l’estrema sensibilità delle analisi non lineari verso parametri non sempre univoci e di facile determinazione; alcuni di questi dipendono fortemente dall’interpretazione che il professionista fornisce per un certo “dato”. Il risultato finale è che, anche con lo stesso software, ogni professionista chiuso nel proprio studio arriverà a risultati notevolmente diversi su uno stesso edificio.

Aggiungiamo ora lo stato dell’arte dei software in Italia; notiamo che, a differenza di altri stati, nel nostro paese non esiste alcun regolamento per “essere presenti” sul mercato nè occorre dimostrare di aver superato alcun benchmark test. La frase che si trova in ogni contratto di vendita e manuale è, più o meno “Il prodotto software non è accompagnato da alcuna garanzia, implicita o esplicita. I produttori ed i rivenditori pertanto non potranno per nessun motivo essere ritenuti responsabili per alcun danno, diretto o indiretto, per mancati guadagni od altro in conseguenza dell’utilizzazione delle procedure”.

Sia chiaro, non è mia intenzione esimermi da alcuna responsabilità ed è necessario che ogni professionista sia consapevole dei limiti degli strumenti che utilizza ma, mi si perdoni il paragone, qui si tratta di passare dalla guida dell’auto al pilotare un aereo con una benda sugli occhi.

 

Credo sia necessario partire da un livello leggermente più basso, prendere coscienza del nostro patrimonio edilizio e, se non c’è alternativa all’uso di determinati strumenti di calcolo, cogliere l’occasione per “trasferirli” dall’uso accademico al mondo reale passando anche tramite l’inserimento di un protocollo per la validazione di tali strumenti.

Il software deve rimanere un ausilio, un fedele amico che sostiene il progettista nella sua idea. Lo diceva Torroja “Potranno servire o no, i calcoli, ma tutta la loro complicazione, tutto il loro astruso accompagnamento matematico, non aggiungeranno nulla di nuovo. Non faranno che dare un marchio di garanzia all’idea iniziale della forma scelta. Nessuna opera sarà tramandata alla posterità per la perfezione dei suoi calcoli. Soltanto la forma, se ben riuscita e apportatrice di nuova perfezione, continuerà ad impressionare”.

Andrea Barocci

giu 04 2014

Fisco, Italia prima nell’Ue per le imposte sul lavoro e seconda per le tasse sulle imprese

«Eccessivo» e «mal distribuito». Sono gli aggettivi che la Corte dei conti conia per il nostro sistema tributario nel rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica che viene presentato oggi al Senato. E che dimostra come l’Italia sia ancora prima nell’Ue per le imposte sul lavoro e seconda per le tasse sulle imprese. Viceversa non brilliamo certo per distribuzione del reddito.

DOCUMENTI

Leggi il rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica

Corte dei conti: il presidente Squitieri

Gettando un occhio sul fronte della spesa emergono dati in chiaroscuro: a una forte contrazione delle uscite in conto capitale, che è proseguita nel 2013, fa da contraltare un lieve aumento di quelle correnti. In questo caso una soluzione a portata di mano ce la offre la Germania del 2007. Se seguissimo l’esempio tedesco la spesa pubblica tricolore potrebbe ridursi di 4,5 punti di Pil (il 2,7% entro il 2018). Un accenno infine ai conti pubblici: rispettare gli obiettivi di bilancio in termini strutturali nel 2015 e nel 2016 richiede una correzione pari, rispettivamente, allo 0,3 e 0,6 del prodotto.

Tutti i limiti dell’Irpef

Il primo dato che balza agli occhi dal rapporto della magistratura contabile presentato oggi a Palazzo Madama è il peso del fisco. Per la Corte dei conti alla base della distanza tra il «Paese reale» e il «Paese fiscale » c’è soprattutto l’Irpef. È proprio l’imposta sul reddito delle persone fisiche, con 41 milioni di contribuenti e un gettito pari al 36% dell’insieme delle entrate tributarie, a dare un contenuto a due nostri grandi problemi: un prelievo

elevato, con pesanti ricadute sul costo del lavoro e sugli equilibri dei sistema produttivo;

un prelievo mal distribuito, che sottolinea una penalizzante divaricazione fra il paese

reale e il paese fiscale. Sul primo punto basti pensare che alla fine del 2013 la pressione fiscale è arrivata al 43,8%: quasi tre punti oltre il livello segnato all’inizio del terzo millennio e quasi quattro rispetto al valore medio degli altri ventisei paesi Ue (40 per cento, in riduzione nell’ultimo decennio). E anche le prospettive non fanno ben sperare visto che il Def 2014 annuncia un prelievo in ulteriore aumento e rimanda al 2017-18 per la prima inversione di tendenza. Ma se passiamo dal generale al particolare il quadro peggiora ulteriormente. L’Italia è infatti al secondo posto per il prelievo gravante sui redditi da lavoro (42,3%: sei punti oltre la media europea) e addirittura al primo posto in quello sui redditi d’impresa (25%: quasi il 50: in più della media Ue); viceversa è al ventiquattresimo posto (con il 17,4%) nel prelievo sui consumi, quasi tre punti in meno rispetto alla Ue. Quanto alla distribuzione del reddito basta un dato: il reddito reale disponibile del 10 per cento più ricco della popolazione italiana è cresciuto ad un tasso 5,5 volte più alto di quello relativo ai redditi dei più poveri (1,1 per cento contro lo 0,2 per cento). Fra i paesi dell’area Ocse, solo la Germania e la Svezia hanno registrato un divario più elevato.

mag 22 2014

Nuove semplici norme sui Lavori pubblici: Miraggio o Utupia?

La settimana scorsa il vice ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Riccardo Nencini, dopo la riunione del Tavolo tecnico che dovrà occuparsi del recepimento delle tre nuove direttive comunitarie sugli appalti pubblici, ha annunciato Riscriveremo il codice degli appalti entro il 2015. Dalla prossima settimana avremo lo schema di delega e una griglia dei punti cardinali cui il nuovo codice si ispirerà. Inizieremo, quindi, incontri con i rappresentanti delle associazioni competenti e delle istituzioni prima di scrivere la nuova normativa”.

Questa dichiarazione mi spaventa per il semplice fatto che anche nel caso di recepimento delle due previgenti direttive (2004/17/CE e 2004/18/CE) si è trattato di un legge delega (art. 25 legge 18 aprile 2005, n. 62) in cui il governo, allora in carica, aveva la possibilità di:

predisporre un unico testo normativo recante le disposizioni legislative in materia di procedure di appalto disciplinate dalle due direttive coordinando anche le altre disposizioni in vigore;

semplificare le procedure di affidamento che non costituivano diretta applicazione delle normative comunitarie, finalizzata a favorire il contenimento dei tempi e la massima flessibilità degli strumenti giuridici;

conferire all’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici compiti di vigilanza nei settori oggetto della disciplina stessa.

Il risultato è, oggi, sotto gli occhi di tutti con una ragnatela di norme costituita da oltre 600 articoli (Codice dei contratti e Regolamento di attuazione), che hanno subito dal 2006 ad oggi oltre 500 modifiche e da oltre 6.000 (Si! seimila) pronunce dell’Autorità di vigilanza e dei Tribunali Amministrativi!

Ma quello che più mi spaventa è non conoscere i nomi di coloro che fanno parte del tavolo tecnico che si è già riunito. E l’interesse a conoscere i nominativi dei componenti non è banale in quanto già dagli stessi sarebbe possibile intuire gli orientamenti del tavolo stesso.

In una recente intervista il Vice Ministro Nencini ha precisato ”Sarà un codice snello, “anglosassone”: semplificazione per le imprese, tutela degli interessi sociali, attenzione alle piccole e medie imprese, ai profili ambientali, possibile inserimento del “debat public”, qualificazione delle imprese subappaltatrici, trasparenza”.

E mentre per gli appalti sopra soglia il problema è di più semplice soluzione in quanto saremo obbligati al recepimento della nuova direttiva 2014/24/UE con l’obbligatorietà di utilizzare come unico criterio di aggiudicazione quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa ( articolo 67 direttiva 2014/24/UE) individuata sulla base del prezzo o del costo, seguendo un approccio costo/efficacia, quale il costo del ciclo di vita (art. 68 direttiva 2014/24/UE), un importante nodo da sciogliere è quello del criterio di aggiudicazione per gli appalti sotto soglia.

In questo caso, senza alcun vincolo imposto da norme europee, il criterio di aggiudicazione potrà essere scelto dal legislatore nazionale e saremmo curiosi di sapere se sarà scelto sempre quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa o quello del prezzo più basso o se, salomonicamente, verrà data la possibilità all’Amministrazione di scegliere l’uno o l’altro.

Spero che le dichiarazioni del Vice Ministro Nencini su un codice snello non siano un miraggio o un’utopia anche perché sono sotto gli occhi di tutti le notizie degli ultimi giorni ed in particolare le dichiarazioni del colonnello Giovanni Avitabile, responsabile dell’ufficio “Tutela uscite e mercati” al Comando generale della Guardia di Finanza, che intervistato dalla Stampa ha dichiarato: ”Il fenomeno purtroppo è nazionale. Ovunque ci sia un affare da concludere c’è chi ne vuole approfittare. Nei primi quattro mesi del 2014, scandalo Expo a parte, su 820 milioni di euro di appalti che abbiamo controllato, quasi il 70 per cento, per 560 milioni di euro, è risultato non in regola”. ”Fino ad aprile sono stati denunciati 290 soggetti, di cui 26 tratti in arresto, per reati di frode nelle pubbliche forniture, turbata libertà degli incanti. Nel 2013, l’attività di contrasto agli illeciti negli appalti pubblici ha condotto alla denuncia all’Autorità Giudiziaria di 657 soggetti, per i reati di turbata libertà degli incanti e frode nelle pubbliche forniture, dei quali 135 sono stati tratti in arresto”. ”Nel 2012 nel nostro Paese si è registrata una mole di affari di 95 miliardi e 300 mila euro, pari al 6% del Pil interno e al 18% del Pil europeo, che comporta tra 11.700-15.600 posti di lavoro per ogni miliardo di euro investito. Ma è chiaro che tangenti e corruzione alterano drammaticamente il mercato del lavoro. Per non parlar, poi della piaga del lavoro nero”. ”Mafia e ‘ndrangheta hanno interesse a riciclare i proventi di attività illegali, come il traffico di stupefacenti e l’estorsione, in affari legali. La loro infiltrazione negli appalti pubblici è sempre più diffusa”.

In pratica, pur con l’attuale ragnatela di norme, 7 appalti su 10 non sono in regola e l’occasione del recepimento delle nuove direttive con una rivisitazione delle attuali norme non può essere un’occasione da utilizzare in tempi non compatibili con l’attuale situazione di degrado. Forse, allora, la soluzione potrebbe essere quella di norme semplici e facilmente intellegibili che avrebbero il pregio di quella trasparenza da tutti auspicata e mai raggiunta.

A cura di arch. Paolo Oreto

mag 17 2014

Perché le città dovrebbero rimanere caotiche e disordinate

Nel tentativo di emulare i piccoli centri, dove regnano il verde e la tranquillità, le città rischiano di perdere il loro carattere identitario di ‘cuore produttivo e propulsivo’, di cui il caos è l’inevitabile conseguenza.

In un momento come quello attuale in cui alla parola ‘città” viene quasi obbligatoriamente associato un aggettivo che la connoti- smart, tecnologica, innovativa, fra i più diffusi- è giunto forse il momento di riflettere sul significato di città in sé. Il suggerimento arriva da Robert Bevan (nella foto), giornalista esperto in architettura e urbanistica, che sulle pagine del portale online del “The Guardian”, accusa una progressiva perdita di vista dei principi basilari su cui un centro urbano dovrebbe essere fondato.

La città è, e dovrebbe rimanere, viva e caotica

Andando di fatto a confutare la tesi urbanistica esposta poco tempo fa da Kent Larson, ricercatore del MIT, secondo cui per contrastare il fenomeno dell’urbanizzazione e per garantire agli abitanti un alta qualità della vita le città del futuro dovrebbero essere immaginate come piccoli quartieri autonomi, Bevan sostiene invece che non si possano sottrarre ai centri urbani le loro caratteristiche peculiari. Ovvero: caoticità, vivacità, multiculturalità.

L’attuale paradosso: paesi che vogliono essere città (e viceversa)

Nel trend dell’attuale progettazione urbana, Bevan rintraccia un pericoloso paradosso. Mentre i piccoli centri sembrano aspirare al titolo di città e rincorrono questo ‘avanzamento di grado’ aumentando servizi e residenze, le ‘vere’ città guardano di contro con nostalgia ai modelli rurali e alla vita tranquilla di periferia, cercando di riprodurne alcuni elementi, che si traducono però nella pratica in inutili surrogati.

Il pericolo del modello delle ‘garden city’

La necessità di affrontare la questione si è resa ancor più stringente, dichiara il giornalista, dall’annuncio, fatto qualche mese fa dal cancelliere George Osborne, della realizzazione di una garden city a Ebbsfleet, nel Kent, a 38 km da Londra. L’obiettivo é quello di creare un nuovo centro urbano ‘verde’ e al tempo stesso ridurre la crescente domanda di case nella zona piú popolata d’Inghilterra.

Ma cos’è una garden city? Il “garden city movements” è una metodologia sviluppata alla fine dell’800 dall’urbanista Ebenezer Howard che prevede la realizzazione di un sistema di città satelliti immerse nel verde, sufficientemente distanziate per evitare di saldarsi, che si dispongono a corona di una città centrale. Con il duplice obiettivo di salvare la città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono.

Modello implementato anche in Italia

Un modello implementato anche in Italia, con esiti più o meno positivi. Citiamo, fra tutti, l’esempio del quartiere Mirafiori a Torino, di quello di Cusano Milanino a Milano e del quartiere Isolotto a Firenze, a cui si aggiungono delle vere e proprie “città nella città”, come il caso di Milano Due a Segrate, Milano 3 a Basiglio, Metanopoli a San Donato Milanese. Bevan è ad ogni modo categorico: il modello è da bandire.

Bisognerebbe tornare al concetto di agorà

Ribadendo come, sopratutto in Gran Bretagna, si sia a lungo disquisito sul concetto di città senza arrivare mai alla precisa definizione di alcuni parametri, il giornalista dichiara che gli unici criteri universalmente validi risalgono al 1907. E stabiliscono che una città debba necessariamente avere: almeno 300 mila abitanti, una distinguibile unità centrale come fulcro di una superficie molto più ampia e un impianto governativo locale.

Ma il concetto, che ultimamente viene troppo spesso dimenticato, sentenzia Bevan, è quello dell’agorà greca, che si riferiva a uno spazio pubblico centrale inteso come luogo di incontro e di libero scambio di idee e merci. La città non può essere considerata uno spazio verde, né una gigantografia di un paesino rurale, perché è e dovrebbe rimanere un centro “vitale” dove nascono le migliori idee, dove si concentra il ‘motore produttivo e propulsivo’ di una nazione. La contropartita, inevitabile, è quella di un ambiente più stressante e disordinato, ma è questo il prezzo da pagare, non vi sono sconti elargibili ai cittadini.

Le città rischiano di perdere la propria identità e di tornare a una mentalità provinciale

E gli urbanisti dovrebbero avere bene in mente questi concetti e non rincorrere il sogno di un eden inattuabile. E pericoloso, perché il rischio è quello della perdita identitaria delle città e il ritorno a una mentalità provinciale.

mag 10 2014

Lupi ai progettisti: ‘"la Pubblica amministrazione torni ad avere funzioni di indirizzo e controllo"

Le Professioni Tecniche chiedono di limitare la progettazione interna della PA e aprire le gare ai piccoli studi

di Rossella Calabrese

Così come hanno fatto le professioni tecniche, anche il comparto pubblico deve fare rete. La riforma dei lavori pubblici rappresenta un’opportunità per il sistema Paese, che la Pubblica Amministrazione deve cogliere tornando ad esercitare le funzioni di La Pubblica amministrazione torni ad avere funzioni di indirizzo e controllo’, così il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, all’incontro “Sviluppo e occupazione, gli obiettivi della riforma dei lavori pubblici”, organizzato ieri a Roma dalla Rete delle Professioni Tecniche (RPT) per presentare le proposte di modifica del Codice degli appalti.

 

Le parole del Ministro Lupi sono state accolte con estrema soddisfazione dall’OICE, l’Associazione delle società di ingegneria e architettura aderente a Confindustria. Per la Presidente Patrizia Lotti, le dichiarazioni del Ministro sulla necessità di esternalizzare l’attività di progettazione e fermare la progettazione interna della P.A. sono una assoluta e positiva novità che accoglie quanto l’OICE propone da tanti anni.

“Riformare il ruolo della Pubblica Amministrazione, che deve essere centrata sulla fase di studio e programmazione degli interventi e sul controllo, è un nostro refrain da almeno 15 anni – ha detto Lotti -, da quando già era evidente che per migliorare la qualità del progetto risultava antistorico, antieconomico e controproducente puntare sul rafforzamento degli uffici tecnici interni”.

Secondo l’OICE “è fondamentale che la Pubblica Amministrazione si attrezzi per garantire e verificare la qualità del progetto e le modalità di esecuzione dei lavori, difendendo il progetto che ha approvato e messo in gara lei stessa, assicurando che sia realizzato nei tempi e nei costi preventivati, come un vero proprio project manager”.

 

Sul concetto di rete si è soffermato anche Ermete Realacci, Presidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. “È opportuno – ha sottolineato – creare un’infrastruttura dei saperi diffusa, in modo da decidere in maniera più oculata anche su quali opere effettivamente investire”.

 

Armando Zambrano, presidente della RPT è intervenuto sul tema dell’esclusione dei piccoli studi dalle gare: “vogliamo aprire il mercato dei lavori pubblici – ha detto – rimuovendo le regole attuali che impediscono l’accesso alle gare ai giovani ed ai meno giovani che non siano in possesso di strutture professionali di notevoli dimensioni, oltre a garantire una maggiore trasparenza per l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria con procedure di selezione più controllate”. Come rilevato dall’Agenzia delle Entrate circa un anno fa, ad oggi, più del 97% dei professionisti è escluso dalle gare per l’affidamento dei servizi di progettazione.

La richiesta di aprire il mercato, assicurando i principi di trasparenza, in aiuto ai professionisti più giovani e meno strutturati, insieme alle altre proposte, è contenuta nel Documento della RPT, che si inserisce nel processo di allineamento della normativa nazionale alla nuova Direttiva Appalti, approvata lo scorso 15 gennaio, e che dovrà essere recepita dagli stati membri entro i prossimi due anni.

“Esprimo soddisfazione – ha detto Rino La Mendola, Consiglio Nazionale Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori – in quanto l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici ha accettato il principio da noi espresso secondo il quale occorre eliminare il contrasto oggi esistente tra norme di rango diverso. Una situazione che sta bloccando il mercato degli operatori economici rispetto al quale ci aspettiamo una determina chiara da parte dell’Autorità”. Un ambito, questo, in cui si ritiene doveroso compiere ulteriori sforzi per regolamentare in maniera più chiara ed efficace anche ruoli e diritti del singolo professionista.

Anche l’OICE ha messo a punto le sue proposte di riforma del Codice, che illustrerà nel Convegno annuale programmato per il 5 giugno a Roma: “Di questa positiva e fondamentale novità avremo senz’altro modo di parlare con il Ministro Lupi durante il nostro Convegno annuale, che vorrà evidenziare come l’ingegneria e l’architettura possano essere un formidabile strumento di sviluppo e di traino per tutta la filiera delle costruzioni e in generale per rendere più efficiente ed efficace il sistema”.

mag 08 2014

Obbligo di POS per i professionisti: strumento utile o inutile vessazione?

A sentir parlare i rappresentanti delle libere professioni tecniche siamo certamente propensi verso la seconda ipotesi. Dopo, infatti, la stangata del TAR che ha rigettato il ricorso presentato dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori per la sospensione dell’obbligo previsto dal 30 giugno 2014 di accettare i pagamenti col POS per importi superiori a 30 euro (leggi news), è arrivato il commento, duro, della Rete delle Professioni Tecniche.

 “In seguito a questo pronunciamento del TAR – ha affermato il Coordinatore della Rete delle Professioni Tecniche Armando Zambrano – l’obbligo di accettare pagamenti col POS verrà esteso a tutti i professionisti, indipendentemente dai livelli di reddito e dalla tipologia di clientela. Questo si tradurrà in un onere annuale di almeno 150 euro solo per disporre del dispositivo necessario a gestire i pagamenti. Un ulteriore inaccettabile aggravio per i professionisti”.

 

“E’ singolare – prosegue Zambrano – che proprio nel momento in cui il Governo decide di mettere 80 euro al mese nelle tasche dei lavoratori dipendenti, venga consentita una misura vessatoria nei confronti dei professionisti. Una categoria che, ancora una volta, risulta fortemente penalizzata”.

“Noi – aggiunge Zambrano – siamo sempre stati favorevoli alla tracciabilità delle transazioni. Ma questa deve essere conseguita senza oneri aggiuntivi a carico dei professionisti. Già ora, nella stragrande maggioranza dei casi, le transazioni tra i professionisti tecnici e i clienti, vista l’entità degli importi, avvengono con strumenti come i bonifici bancari che, oltre a garantire la massima trasparenza, costano anche meno”.

“Comunque – ha concluso il coordinatore della RTP – la battaglia continua. Alla fine riusciremo a dimostrare il carattere vessatorio di un provvedimento che, all’atto pratico, si tradurrà nel solito intollerabile regalo al sistema bancario”.

Si prevedono, dunque, nuovi capitoli e spunti giornalistici da parte dei rappresentanti delle professioni tecniche nazionali, anche se rileviamo come negli anni gli stessi non siano mai riusciti a far valere i diritti dei loro iscritti. Quello del POS è, infatti, solo l’ultimo tassello in ordine temporale che si aggiunge ad un puzzle già ben definito dove i liberi professionisti hanno perso il loro ruolo. Ci chiediamo, dunque, cosa si possa fare per rilanciare realmente le libere professioni.

A cura di Ilenia Cicirello

apr 26 2014

Pubblicità degli Appalti solo in Rete così non si tutela la Trasparenza

Il governo ha deciso la cancellazione dell’obbligo di pubblicare i bandi di gara sui quotidiani.

di Nicola Saldutti

Se c’è un mondo nel quale la trasparenza viene considerata troppo spesso un optional , è quello degli appalti pubblici. Un mondo che vale per l’Italia qualcosa come 30 miliardi di euro. Decine di Comuni, enti, istituzioni, lo stesso governo: sono migliaia gli appalti messi in gara. Quei bandi pubblici (e pubblicati) che consentono alle imprese di mettersi in competizione.

Decisiva, appare dunque la trasparenza di queste competizioni. Bene, il governo ha deciso che la via (unica) per raggiungere questo obiettivo dovrà passare attraverso la cancellazione dell’obbligo di pubblicare i bandi di gara sui quotidiani. Una scelta legata a risparmi ipotizzati in una fascia compresa tra 75 e 100 milioni di euro. Il motivo? La strada individuata è quella della forma digitale. Eppure c’è qualcosa che manca (al di là dell’effetto negativo che gli stessi quotidiani sarebbero costretti a subire): nel decreto sviluppo bis emanato dal governo Monti era prevista una norma che automaticamente avrebbe fatto risparmiare risorse allo Stato. Come? La spesa di pubblicazione dei bandi doveva essere in carico alle imprese vincitrici delle gare. Come dire: hai vinto la gara anche grazie a quel bando del quale sei venuto a conoscenza, è giusto che paghi quel servizio reso dal quotidiano su cui è stato pubblicato.

Un ragionamento di mercato, zero statalismo. Peccato però che quella norma, in vigore dal gennaio 2013, sia rimasta in gran parte inapplicata: soltanto sei uffici su dieci si sono fatti rimborsare le spese. Lo Stato, nelle sue varie forme. ha così perso per strada circa 50 milioni di euro.

Basterebbe semplicemente applicare quella legge per risparmiare. Certo, le pieghe del bilancio pubblico sono contorte ma suona come paradossale avere le regole che prevedono il pagamento da parte dei privati e non applicarle.

Con un’altra conseguenza, questa volta più sottile: è vero che tutto quello che viaggia online è trasparente per definizione ma forse, nel caso degli appalti, rischia di essere una trasparenza soltanto formale.

apr 18 2014

Crediti Formativi Professionali (CFP): Formazione continua o speculazione continua?

Che quello della formazione continua sarebbe stato un business lo pensavamo in molti, ma che l’affare lo facessero soprattutto gli Ordini provinciali in realtà non era per nulla prevedibile. E’ il caso dell’Ordine degli Architetti della provincia di Palermo che della formazione continua sta facendo un vero e proprio mercato (Palermo è già famosa per quello di Ballarò), utile a sanare i buchi di bilancio causati dagli iscritti morosi.

Vi servono 3 CFP? Benissimo, è necessario pagare appena 15 euro. Ve ne serve solo 1? Vanno bene 5 euro. E chissenefrega se il corso non vi interessa, è sufficiente investire poche ore del proprio tempo e un budget economico molto contenuto per ottemperare all’obbligo di formazione continua.

Entrando nel dettaglio, il 28 Marzo 2014 si svolgeva a Palermo un seminario sull’Abusivismo edilizio per il quale l’Ordine degli Architetti di Palermo ha riconosciuto fino ad un massimo di 6 CFP. Per l’iscrizione, l’architetto palermitano ha compilato un modulo in cui dichiarava:

“Il Sottoscritto dichiara di aver preso visione dell’obbligo di versamento di €.5,00 per ogni credito formativo che sarà riconosciuto dal C.N.A. per la partecipazione dell’evento formativo”.

Sull’argomento è intervenuta il Consigliere provinciale Claudia Rubino che in una nota ha precisato quanto segue: “Il Seminario sull’abusivismo edilizio che si è tenuto lo scorso 28 marzo è costato all’Ordine degli APPC di Palermo circa 4.000 euro…a fronte di un incasso per l’Ordine di circa 12.000 euro (circa 400 partecipanti * 30 euro, che ogni partecipante deve versare all’Ordine per ottenere i CFP previsti). Ciò vuol dire che l’Ordine, attraverso l’organizzazione/adesione a questo seminario, ha guadagnato circa 8.000 Euro, che non servono solo a coprire le spese affrontate, ma anche a “fare cassa” mettendo le mani sul portafoglio dei nostri colleghi su molti dei quali già grava il peso della crisi che stiamo attraversando e che in alcuni casi ha determinato la chiusura di molti studi professionali. Più che di “formazione continua” si dovrebbe parlare di “speculazione continua” autorizzata dal vigente DPR 137/2012 a danno degli iscritti, che sottraggono tempo al loro lavoro per seminari che in alcuni casi sono anche poco formativi”.

Simpatico anche il pensiero di un noto architetto di Palermo che ha così commentato la faccenda “Cosa è rimasto di libero nella nostra professione? Ci troviamo obbligati a raccogliere i punti, come fanno le brave massaie al supermercato per ricevere il “pratico telo mare”. Mi sfugge inoltre su quali argomenti dovremmo continuamente formarci, (le piastrelle di Kerlite?, i led colorati? i nuovi sistemi di sciacquoni digitali?).

Mi dicono che, visitando la recente mostra di Sua maestà Renzo Piano tenuta a Padova, si potevano ottenere ben 3 crediti formativi. riuscendo a toccargli la barba si poteva salire anche a 7….Ma ci rendiamo conto?

La formazione permanente potrebbe forse avere un senso per i colleghi della pubblica amministrazione, ma per un libero professionista che si confronta con il libero mercato me ne spiegate il senso? La formazione obbligatoria è l’opposto di quella realmente utile”.

Ma non ho ancora terminato.

Con un comunicato di pochi giorni fa, il Consiglio Nazionale degli Architetti ha informato dell’organizzazione, il prossimo 8 Maggio a Roma, di un convegno sul tema “Aprire il mercato dei lavori pubblici: la proposta della Rete delle Professioni Tecniche” organizzato dalla Rete dei Consigli Nazionali delle Professioni Tecniche. La partecipazione al Convegno, totalmente gratuita, darà diritto all’attribuzione di 4 CFP ai sensi delle linee guida sull’aggiornamento professionale continuo degli Architetti.

Considerata l’importanza dell’evento, il CNAPPC ha dato la possibilità agli Ordini provinciali di offrire ai loro iscritti l’evento in streaming. In tal caso gli Ordini potranno certificare la presenza e riconoscere ai partecipanti i 4 CFP.

L’Ordine degli Architetti di Palermo, molto attento quando si parla di formazione e servizi utili agli iscritti, ha così prontamente deciso di aprire le prenotazioni al convegno. Fin qui niente di male, se non fosse però che questa volta è stato richiesto il contestuale pagamento di 20 euro (casualmente 5 euro x 4 CFP) quale diritto di Segreteria a titolo di rimborso spese forfettario.

Considerata, dunque, la gratuità dell’evento (organizzato dal CNAPPC), che l’organizzazione in streaming non comporta chissà quali costi aggiuntivi e che la Segreteria dell’Ordine dovrà pur servire a qualcosa, mi chiedo come sia possibile che uno dei principali Ordini (in termini di iscritti) d’Italia possa permettersi di chiedere 20 euro per la trasmissione in streaming di un evento organizzato da altri. Credo, piuttosto, che con la formazione continua si stia perdendo totalmente la bussola e che così com’è strutturata stia servendo solo a (passatemi il termine) “fare cassa”.

A cura di Ilenia Cicirello

 

apr 17 2014

“Formazione continua” foglia di fico per una crisi nera

Si chiama “formazione continua” e obbliga tutti gli iscritti ad albi professionali a rimettersi sui banchi per accumulare crediti formativi, come all’università.Debbono cioè frequentare corsi o partecipare a seminari, ma soltanto a quelli accreditati dagli Ordini (e l’iter di accreditamento non è dei più soft, anche perché richiede un contributo economico). Molte di queste attività formative sono inoltre a pagamento. In altre c’è l’obbligo di acquistare volumi. Obiettivo finale: accumulare 60 crediti in tre anni, di cui 15 su questioni deontologiche.

Un obbligo di legge – promosso dal governo Monti (Dpr 137/2012) ma dopo incontri con gli organismi settoriali – che include anche i giornalisti, o perlomeno gli iscritti all’Ordine dei giornalisti (laddove le decine di migliaia di “pubblicisti” possono anche svolgere altri mestieri), che sono globalmente oltre 100mila in Italia. Una situazione che oltre ad alimentare malumori e proteste, specie in questo periodo di recessione, sta mettendo in crisi la macchina organizzativa.

In un periodo di grave disfacimento del comparto editoriale, che coinvolge anche le testate del terzo settore già falcidiate dalle riduzioni delle agevolazioni postali, la risposta dall’alto è quella di appesantire il carico degli operatori del settore con iniziative formative spesso discutibili. Come quella svoltasi qualche giorno fa presso la Commissione europea a Roma, interlocutori due europarlamentari, di cui uno ha lasciato la sala con due ore di anticipo rispetto ai tempi previsti a causa “dell’assemblea nazionale del suo partito”. Il seminario sull’Europa ha fornito come dati più recenti sulla povertà quelli del 2012, mentre l’Istat ha divulgato gli ultimi ad inizio 2014. Di altre iniziative è scarsa la promozione. Per altre è stato chiesto l’obbligo di iscrizione ad un sindacato del settore, obbligo poi ritirato. In tutto ciò l’Ordine, finanziato con i soldi degli iscritti, sta investendo ingenti risorse, come ha precisato il presidente Iacopino in una lettera di presentazione dell’iniziativa a dicembre scorso.

Però, ad onor del vero, chiudere in un’aula un giornalista è decisamente in antitesi rispetto a ciò che hanno sempre predicato i maestri del mestiere: “cucina redazionale” all’interno di una testata e scarpe da ginnastica per andare a caccia di notizie. Ma da qualche anno la logica s’è capovolta e le onerose scuole per accedere al praticantato si sono moltiplicate a dismisura rispetto alle quattro originarie. Inoltre è stato ormai di fatto superato l’obbligo di svolgere il praticantato in una redazione qualificata e con più professionisti, come richiede la legge: l’orientamento più recente è il riconoscimento “di fatto” del periodo di apprendistato o il “ricongiungimento” con corsi di formazione da 250 euro.

Nel contempo, però, gli organi del settore hanno scoperto una febbrile attività nel partorire carte deontologiche e nel dar vita ad iniziative formative. Mentre il comparto sprofonda in una crisi drammatica e senza precedenti, non soltanto quantitativa ma anche qualitativa. E a ben poco possono servire gli aggiornamenti professionali imposti tramite le sole attività certificate: per quale motivo dovrebbe essere migliore un corso di lingue con “il bollino” dell’Ordine rispetto ad uno del British? O perché un corso sulla deontologia di pari ore a Benevento rilascia quattro crediti e a Nola dieci? Inoltre, benché variegata, può una formazione coprire gli infiniti settori in cui sono specializzati i giornalisti? E ancora: quale vantaggio competitivo può dare la formazione nel momento in cui tutti i giornalisti sono obbligati a seguirla?

Per la cronaca, gli argomenti proposti dall’Ordine pugliese, ad esempio, vanno da “Giornalismo e musica internazionale” a “Dal dolore al diabete, la medicina specialistica nella stampa generalista”, da “Donne in cartiera” a “Infertilità e ambiente, il ruolo dei mass media”.

Mentre agli operatori del settore, ormai in maggioranza lavoratori autonomi, si sottrae tempo prezioso per questo genere di attività (compresi i “comizi” degli europarlamentari che garantiscono crediti), l’editoria ha perso ben 1.660 posti di lavoro negli ultimi cinque anni. Secondo i drammatici dati della Fieg, la federazione della stampa, nel 2013 le vendite dei quotidiani sono scese del 10,3 per cento e i ricavi da inserzioni addirittura del 19,4 per cento. Non è andata meglio ai periodici: meno 9,8 per cento in edicola, meno 24,5 per cento di ricavi pubblicitari. Gli editori, giocoforza, rispondono tagliando le redazioni e non assumendo più. La situazione della Rcs è emblematica, ma anche al Sole 24 Ore non si naviga in buone acque. La cassa integrazione e i contratti di solidarietà sono ormai la regola in molte aziende editoriali.

Il trend, tra l’altro, è sempre più accentuato. Il fatturato degli editori di quotidiani è sceso del 2,1 per cento nel 2011, del 9,9 per cento nel 2012, fino a crollare dell’11,1 per cento nel 2013. Colpa soprattutto del calo della pubblicità. Nonostante i contributi per l’editoria, nel 2012 soltanto sedici aziende risultavano in utile, contro 35 che hanno chiuso i bilanci in rosso subendo perdite complessive per 149,4 milioni (l’anno prima per 66,6 milioni).

I lettori di quotidiani sono oggi poco più di 20 milioni rispetto ai 25 milioni del 2011. Per i periodici s’è passati in appena due anni da 33 a poco più di 28 milioni.

In controtendenza, ma flebile, l’on-line: i lettori di testate quotidiane sono passati da 2,7 a 3,7 milioni in due anni.

L’effetto di questa situazione drammatica lo stanno pagando soprattutto i giornalisti: tra il 2009 e il 2013, secondo i dati Fieg, ne sono rimasti a spasso 887 dei quotidiani e 638 dei periodici. Si è più che dimezzato (da 173 a 75) il numero dei praticanti, da cui la necessità di ricorrere ai praticantati d’ufficio soprattutto per non dare contraccolpi alle casse previdenziali.

apr 10 2014

Crediti Formativi Professionali (CFP), la risposta del Presidente dei Geologi Gian Vito Graziano

Il Presidente del Consiglio nazionale dei Geologi in merito all’articolo “Crediti formativi e Tariffe professionali: dove sta la perequazione?” pubblicato recentemente

Per molti versi condivido i contenuti dell’articolo, ma non per tutti.
Sull’aggiornamento professionale ad esempio la mia opinione è diversa da quella espressa dall’articolo: io ritengo che questa può essere un’occasione di crescita per le categorie professionali, ma bisogna lavorare per rendere i corsi dei veri e propri eventi formativi e non passerelle o prebende per società di formazione.
Per quanto ci riguarda, noi geologi, dopo 6 anni di obbligo di aggiornamento, stiamo puntando molto sulla qualità dei corsi e soprattutto di chi li fornisce.
Abbiamo già accreditato enti di formazione come Italferr, Anas, Sigea, ecc. e ci aggingiamo a farlo con altre società molto qualificate, sbarrando la strada a gente improvvisata. La qualità non è semplice da raggiungere, ma neanche impossibile. Occorre conoscere alcuni meccanismi per evitare alcune storture nel sistema, che anche noi geologi, in 6 anni, abbiamo avuto. Ma ti assicuro che dopo 6 anni qualcosa abbiamo imparato.
Frequentando gli organismi di rappresentanza europea dei geologi, dove quasi tutti i Paesi membri fanno aggiornamento professionale, ti assicuro che la nostra posizione di geologi italiani è molto migliorata in termini di credibilità da quando abbiamo imposto questo obbligo
.
L’articolo, in verità, voleva essere una provocazione sulla sperequazione tra l’operato del governo nei confronti della libera professione con l’eliminazione delle tariffe professionali e l’obbligo dei crediti formativi ma, in ogni caso, lungi da me la voglia di non essere d’accordo sulla formazione! 
Il problema vero (ed è quello che ho potuto constatare personalmente) riguarda la possibilità concreta che la formazione diventi solo la rincorsa ai CFP e ai corsi che a meno prezzo diano più crediti. E, quindi, come affermato nell’articolo diMagnaschi su Italia Oggi “un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti“.
Così com’è strutturata la formazione diventerà solo un’operazione di massa in cui, sotto il pungolo dei CFP, centinaia di professionisti saranno costretti ad presenziare (a volte senza ascoltare) a corsi su argomenti per i quali non hanno alcun interesse!
Operazione di massa che consentirà a taluni Ordini la sistemazione dei propri bilanci facendo pagare agli iscritti la certificazione dei CF non in funzione del tipo di corso/seminario ma soltanto in funzione del numero di crediti rilasciati!
Per fare un esempio, vorrei sapere quale formazione ottiene un professionista che si occupa di impiantistica o di arredamento nell’ascoltare un seminario sull’abusivismo edilizio? In queste condizioni si intraprende solo un percorso di “bambinificazione”umiliante per i professionisti più seri. E vorrei comprendere perché l’importo da versare per aver rilasciato il certificato sui CF debba essere parametrato al numero dei crediti (in certi Ordini per 1 credito il costo è di 5,00 Euro, per 6 crediti il costo è di 30,00 Euro)!
Mi fa piacere che il Consiglio Nazionale dei Geologi stia puntando sulla qualità dei corsi e di chi li fornisce ma credo, in ogni caso, che sarebbe interessante puntare su una formazione libera e non obbligatoria che, paradossalmente, può diventare, per i professionisti interessati ad ottenere soltanto i crediti utili ad evitare il provvedimento disciplinare, una costosa perdita di tempo.
Ma in quale società libera di tipo occidentale è possibile una situazione simile? Crediamo veramente ad un professionista con il “bollino” e crediamo che un professionista debba essere certificato soltanto per i crediti formativi che ottiene e non per le sue competenze e le sue realizzazioni? 
Riteniamo che un professionista possa valere soltanto se ha raggiunto un dato nunero di crediti formativi senza alcun riferimento alla sua reale attività professionale o, invece, siamo dell’opinione che debba essere il mercato a fare quella naturale selezione che, ovviamente, scaturisce dalla preparazione e dalla formazione dei professionisti stessi?
Io credo in una naturale selezione del mercato ma, contestualmente, non sono contro la formazione e non potrei esserlo perché non avrei dedicato molti anni della mia vita all’insegnamento universitario. Sono contro la generalizzazone, l’obbligatorietà e la massificazione della formazione e credo che quella dei professionisti non può essere ottenuta con un progressivo effetto “rincorsa” al CFP.
A cura di arch. Paolo Oreto

apr 08 2014

Crediti formativi e Tariffe professionali: dove sta la perequazione?

Era di pochi giorni fa un articolo sui corsi di formazione del quotidiano Italia Oggi che mi sono sentito in dovere di condividere sui nostri canali social e che definiva l’obbligo di formazione continua “un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti”.Condividendo pienamente ogni singola parola, l’articolo mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti del problema che non mi sembrano secondari e che riguardano il palese atteggiamento di sperequazione che i Governi succedutisi negli ultimi anni hanno avuto nei confronti delle libere professioni.

Se con l’approvazione del primo pacchetto sulle liberalizzazioni (decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito poi dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, c.d. decreto Bersani) si è proceduto gradualmente prima alla liberalizzazione delle tariffe professionali e poi alla loro completa eliminazione (con il Governo Monti), con la pubblicazione del D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137 si è imposto ai liberi professionisti l’aggiornamento continuo (art. 7) che concretamente si traduce in un aggravio di tempo e denaro che il professionista è costretto ad investire dall’1 gennaio 2014.

Entrando nel dettaglio dei provvedimenti approvati, dal mese di gennaio 2012, con il decreto-legge n. 1/2012 convertito dalla legge n. 27/2012 sono state totalmente abolite le tariffe professionali delle professioni regolamentate e si è stabilita la “pattuizione” del compenso professionale al momento del conferimento dell’incarico. Tale previsione normativa ha portato alle estreme ed aberranti situazioni note ormai a tutti che hanno condotto fino al progressivo svilimento delle prestazioni intellettuali, con offerte al limite dell’assurdo: predisposizione di certificazioni energetiche per abitazioni e locali commerciali a 39,90 Euro – consulenza e stesura di un progetto architettonico per ristrutturazione appartamenti e negozi a soli 100,00 euro.

La causa delle aberrazioni del mercato possono essere ricercate sia in un uso improprio della rete, che ha ormai dato il via a pratiche commerciali di ogni natura e sacrificato la qualità del progetto sull’altare di termini quali “personal branding” e “networking”, sia nella concorrenza innescata dalla cancellazione delle tariffe professionali che, nonostante l’unico limite imposto dal rispetto dell’art. 2233 del codice civile (che misura, in modo molto aleatorio, il compenso professionale in funzione dell’importanza dell’opera e del decoro professionale), ha generato un vortice di strategie di marketing il cui unico minimo comune denominatore è il prezzo (sempre al ribasso).

Anche l’ultima barriera del rispetto del decoro professionale è stata posta in discussione dall’Autorità garante della concorrenza e del Mercato che con il suo Presidente, Giovanni Pitruzzella, ha richiesto più volte e, per ultimo nell’audizione del 4 giugno 2013 alla X Commissione permanente Attività produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati, l’eliminazione dai riferimenti normativi dell’adeguatezza del compenso del professionista rispetto al “decoro professionale” e alla “importanza”, ostacolo (in che modo ancora non si comprende!) alla liberalizzazione del settore delle libere professioni.

Dall’1 gennaio 2014, tutti i liberi professionisti iscritti agli albi, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R. n.137/2012, hanno l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale con la precisazione che la violazione di tale obbligo costituisce illecito disciplinare.

La corsa al credito professionale ha portato ordini e collegi professionali alla definizione di seminari in cui molto spesso parte del tempo è dedicato a quelle che amo definire “passerelle” dei politicanti di turno. Ciò sta già generando nella mente dei professionisti un progressivo effetto “rincorsa” al seminario che offre più CFP ma senza alcun interesse all’argomento trattato. Sarebbe interessante sapere quanti professionisti avrebbero partecipato agli stessi seminari se non ci fosse stata la necessità dell’acquisizione dei crediti necessari per evitare un provvedimento disciplinare.

Dunque, se da una parte il Governo toglie ai liberi professionisti l’unica “arma” (il tariffario) che li metta al riparo dal progressivo svilimento della loro prestazione, dall’altra lo stesso Governo chiede loro di investire tempo e denaro per “certificare” le loro competenze professionali. Ed è proprio per questo che sono d’accordo con quanto scritto da Pieruigi Magnaschi su Italia Oggi: “Al di là delle derive affaristico-burocratiche (che pure ci sono e sono evidentissime) i corsi per professionisti sono un’offesa per i professionisti seri e una foglia di fico per i professionisti scadenti. Un professionista, di solito, è laureato. Sempre di solito, ha dovuto sostenere esami di abilitazione per accedere alla professione. Dopo di che, si suppone che abbia la voglia e gli strumenti per procedere alla sua educazione permanente, nei modi e nei tempi da lui autonomamente scelti: o partecipando ai corsi che vuole (senza bisogno che essi siano forniti di bollini certificativi), o studiando in vario modo (nel 2013 l’e learning è a portata di mano di tutti) o crescendo con i colleghi sul posto di lavoro”.

Nel suo articolo, Magnaschi aggiunge, anche, che “In caso contrario, si accetta un processo di bambinificazione che umilia i professionisti, mettendoli a bàlia, senza peraltro arricchirli. Una legge di questo tipo è da socialismo reale, non da società libera di tipo occidentale dove l’ordine deve sancire i comportamenti deleteri dei suoi iscritti ma non deve certo contribuire alla loro formazione tecnica. E poi bisogna lasciare al mercato il compito di decidere quali sono i professionisti che valgono, che, non a caso, sono pagati di più e/o sono utilizzati di più. Il mercato, quello privato intendo, essendo rappresentato da coloro che sganciano l’euro (esercizio, questo, doloroso per tutti), è lo strumento corretto, attento e costante nella valutazione di qualsiasi professionista”.

Ma con ogni probabilità, quello della formazione continua è stato un vero e proprio “contentino” dato agli Ordini professionali per giustificare la loro esistenza, visto che con il trasferimento ai Consigli di disciplina delle questioni deontologiche e con la cancellazione delle tariffe professionali è venuto meno il ruolo fondamentale previsto dalla legge n. 1395/1923.

Crediamo davvero che un seminario sull’abusivismo edilizio o sulle opere pubbliche sia veramente idoneo a certificare la formazione professionale di un ingegnere o di un architetto? O forse sono solo utili ad avere i crediti necessari per evitare il provvedimento disciplinare?

Sarebbe più giusto chiedersi se, oggi, in sostituzione ad un’obbligatorietà di iscrizione agli Ordini professionali, non sia corretto pensare a situazioni più europee e più adatte alle diverse odierne condizioni professionali.

A cura di arch. Paolo Oreto

 

mar 28 2014

Sagre e concorrenza sleale. In arrivo in Umbria il ‘marchio di validità’ per le sagre

La questione delle sagre e della concorrenza sleale nei confronti dei ristoranti si ripresenta puntuale, in Italia, ad ogni estate. La giunta regionale dell’Umbria ha ora adottato un disegno di legge che introduce regole più severe per le sagre e che potrà servire da esempio per tutte le altre regioni.

Qui su Universofood ci siamo già occupati del problema delle sagre, e delle continue proteste della Fipe e di Confcommercio contro quella che è a tutti gli effetti una forma di concorrenza sleale. Il punto è questo: ogni anno in Italia si svolgono – concentrate per l’80% nei mesi estivi – circa 32.000 sagre, cioè una media di quattro per ogni comune (in Italia ci sono 8.057 comuni); c’è quindi una fortissima concorrenza delle sagre nei confronti di bar e ristoranti, soprattutto nelle zone turistiche (secondo le stime della Fipe in Toscana le sagre toglierebbero ogni estate addirittura il 25% di fatturato a bar e ristoranti!) e soprattutto quando (spesso) le sagre offrono diverse centinaia di “coperti” e si succedono in una stessa località senza soluzione di continuità protraendosi per settimane e configurandosi in sostanza come un’attività stagionale di bar e ristorazione in una piazza o area all’aperto; la concorrenza delle sagre nei confronti di bar e ristoranti è sleale perché le sagre non rispettano gli stessi requisiti cui sono invece sottoposti i bar e i ristoranti, sia in materia fiscale (non devono dare stipendi al personale e non devono pagare le tasse, a parte quelle sui rifiuti – peraltro in genere concesse a una cifra forfettaria) sia per quanto riguarda le regole sul lavoro e le regole igienico-sanitarie, e possono quindi offrire cibi e bevande a prezzi anche di molto inferiori a quelli dei bar e ristoranti che si trovano a pochi metri di distanza, anche perché oltretutto le sagre propongono in genere prodotti di bassa qualità (e costo), assai di rado legati alle aziende agricole del territorio.

La giunta regionale dell’Umbra – dopo le proteste sempre più veementi dello scorso anno da parte dei ristoratori umbri – ha ora preadottato un disegno di legge, che – sia pure in maniera ancora alquanto blanda – introduce alcune regole per le sagre. La Regione Umbria ha in sostanza stabilito il limite massimo di dieci giorni per la somministrazione di bevande e alimenti nell’ambito delle feste popolari e delle sagre, e ha creato un marchio – “Sagra Tipica dell’Umbria” – che sarà concesso soltanto alle sagre che propongono prodotti alimentari provenienti per almeno il 40% dall’elenco regionale dei prodotti agroalimentari tradizionali e classificati come Dop, Igp, Doc e Docg dalla Regione Umbria (il che significa che le sagre porteranno introiti ai produttori agricoli e agroalimentari locali e avranno comunque maggiore difficoltà a tenere i prezzi molto bassi per la necessità di mantenere degli alti standard qualitativi nella scelta dei prodotti).

mar 23 2014

Il 2013 l’anno orribile per l’Umbria: l’economista Sacchi analizza la crisi di casa nostra „

Sullo stato dell’economia umbra del professor Sergio Sacchi, docente presso il Dipartimento di Economia, Finanza e Statistica dell’Università di Perugia. L’analisi è stata redatta alla luce dell’ultima indagine congiunturale diffusa da Unioncamere Umbria.

Il quarto trimestre 2013 chiude un anno difficile e controverso così che questo commento guarderà all’insieme dei dodici mesi appena trascorsi piuttosto che all’ultimo trimestre. L’intento è quello di mettere in luce le sorprese contenute nell’indagine congiunturale e nel cruscotto statistico di Unioncamere Umbria.

La prima riguarda lo stock di imprese: in apparenza tra l’inizio e la fine dell’anno non vi è molta differenza. Il numero delle imprese attive, infatti, flette di poco più di un punto percentuale (- 1,3%): in coda ad un lungo periodo recessivo, con la domanda delle famiglie in regresso, i finanziamenti bancari diventati oggetti di conversazione e gli investimenti in obbligata pausa di riflessione, che non ci sia stata la paventata ritirata e, anzi, sia addirittura aumentato il numero delle unità locali, è certamente fatto inatteso.

E questo è ciò che si percepisce con immediatezza in superficie. Tuttavia il fuoco sta ancora covando sotto la cenere: lo rivelano i dati, così come li riporta il nuovo Cruscotto Statistico, sull’aumento del numero di imprese in scioglimento e liquidazione (+ 2,8%) e di quelle sottoposte a procedure concorsuali (+ 2,5%). Lo confermano, ma non è una novità, i dati sullo stock di addetti in un campione abbastanza consistente (73%) di imprese: si stima, infatti, una flessione complessiva di quasi 5 punti percentuali dell’occupazione totale e di oltre 6 punti percentuali se ci si sofferma a considerare il dato relativo agli addetti alle dipendenze.

L’approfondimento di questi dati generali aiuta a percepire come le difficoltà del tessuto imprenditoriale si colleghino da un lato al tipo di forme societarie maggiormente rappresentate e, dall’altro, alla composizione settoriale delle medesime. E aiuta anche a spiegare la netta divaricazione di opinioni e aspettative ovvero il fatto che mentre le imprese industriali si mantengono in prudente attesa ma con numerose sortite verso i territori del marketing, della razionalizzazione interna o della ricerca di nuovi mercati le imprese del terziario esprimono una maggior rassegnazione ed un più cupo pessimismo.

Tornando alla prima dimensione (articolazione delle forme societarie) si vede, ad esempio, che il numero delle società di capitali continua ad aumentare. Ma l’incidenza delle stesse sul totale resta inferiore rispetto a quanto si registra su scala nazionale e, per di più, il distacco appare in aumento, per effetto di una maggiore velocità di sviluppo delle società di capitali nelle altre regioni. Simmetricamente si registra il peso più accentuato, in Umbria, delle imprese individuali.

Guardando la composizione settoriale si nota una più estesa presenza di imprese agricole, che però nel tempo tendono a ridursi di numero, e una carenza di quelle fornitrici di servizi alle imprese, il cui numero tuttavia sta crescendo a ritmi sostenuti. Oltre che nel comparto agricolo la chiusura di imprese è elevata nel comparto delle costruzioni e dei trasporti e spedizioni.Il tutto si riflette nel dato di un particolarmente basso tasso di sopravvivenza delle imprese che viene confermato dal fatto che solo il 71% delle imprese presenti nel 2010 risultano ancora in attività alla fine del 2013.

La restante parte riepilogativa del Cruscotto permette di farsi una idea, sulla base dei dati dei bilanci delle società di capitali per il 2012, del quadro di debolezza generale che dovrebbe aver caratterizzato i risultati aziendali nel corso del 2013. In particolare, focalizzando lo sguardo sulle sole imprese presenti in tutto il periodo di analisi (il triennio 2010-2012) si ottengono i seguenti risultati:

1) una severa contrazione dei livelli produttivi e del valore aggiunto;

2) un crollo del livello degli utili ante-imposte;

3) il passaggio conseguente a fortemente negativi risultati netti (cioè dopo aver saldato i

conti col Fisco);

In condizioni del genere resta difficile ipotizzare una repentina risalita dei livelli di attività produttiva con beneficio sui conti aziendali: e dunque l’andamento del profilo hard, cioè del numero e del tipo di imprese, di cui si è detto sopra, finisce per alimentare proprio quel genere di debolezze che condiziona la struttura imprenditoriale e a cui si è fatto cenno poco sopra (cessazioni, liquidazioni, ecc.).

“La crisi non dà tregua alle imprese – ha detto di recente il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello – ma per fare le scelte che servono al Paese dobbiamo guardare a chi non si scoraggia, alla capacità del sistema produttivo di rigenerarsi puntando ai settori che offrono più opportunità. Dal turismo ai servizi passando per le produzioni che il mondo continua a premiare, come l’agroalimentare e alcuni comparti del nostro manifatturiero ad elevato contenuto tecnologico. Ma è sempre più dura andare avanti senza un mercato interno capace di sostenere consumi e occupazione.”

“Le imprese che continuano a nascere – ha aggiunto Dardanello – sono frutto di un’auto- imprenditorialità che va guardata con favore e sostenuta, soprattutto quando è espressione di saperi tradizionali e di quella cultura artigiana che oggi è in grandissima difficoltà. È quanto ho ripetuto proprio ieri alla commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato che sta

esaminando diversi disegni di legge sull’artigianato.”

“Dobbiamo alimentare il coraggio di chi fa impresa e ridare fiducia alle famiglie e a chi cerca lavoro – ha aggiunto il presidente di Unioncamere – e per farlo è indispensabile rafforzare le reti che costruiscono questa fiducia, a partire dalle istituzioni. È un impegno che le Camere di commercio stanno portando avanti insieme alle rappresentanze imprenditoriali, per migliorare la qualità dei servizi e la propria efficienza. Tutti dobbiamo e possiamo fare di più”. Nella prospettiva delineata può essere opportuno esaminare, a questo punto, la sequenza relativa al solo quarto trimestre, un trimestre che, come in trasparenza, permette di raccogliere le tendenze passate e, allo stesso tempo, di proiettare lo sguardo anche un po’ più avanti.

Lo sviluppo, come noto, si avvantaggia tanto dell’intensità del processo di accumulazione (incidenza degli investimenti reali) quanto del ricambio dei profili imprenditoriali presenti.Su entrambi questi aspetti vale la pena spendere alcune considerazioni.Per quanto riguarda gli investimenti l’indagine campionaria conferma che il 2013 è stato anno di gestione prudente e timorosa e che il 2014 lo sarà altrettanto. Alcuni dati di sostegno al giudizio piuttosto forte che abbiamo appena formulato. Il primo: oltre metà (quasi due terzi: 60,6%) delle imprese intervistate ammette di non aver effettuato, nel corso del 2013, alcuni investimento. Delle rimanenti la stragrande maggioranza dichiara di aver realizzato il minimo indispensabile, cioè investimenti di importo inferiore a 25 mila euro.

Scomponendo il dato aggregato si scopre che la disponibilità a investire è stata più sostenuta da parte delle imprese alimentari e di quelle meccaniche. Non è superfluo ricordare che, secondo tutti gli osservatori, sono stati questi due i settori relativamente più dinamici nel corso dell’ultimo anno. La disponibilità a investire, va ricordato, è stata più convinta da parte delle imprese più grandi che non da parte delle imprese più piccole e, in particolare, di quelle artigiane.

Il secondo dato che ci preme porre all’attenzione di chi legge questa nota di accompagnamento al materiale raccolto e organizzato da Unioncamere Umbria è relativo alla natura degli investimenti effettuati. Quasi due terzi delle imprese contattate, infatti, conferma il tradizionale modello di modernizzazione dei processi produttivi: l’acquisto di macchinari e attrezzature. Gli investimenti in marketing o in sistemi di elaborazione dati si rivelano sostenuti, non è certamente un caso, nei due settori già menzionati per altro aspetto: il settore alimentare e quello meccanico.

Abbastanza omogenea è la spesa per la formazione professionale che raggiunge le sue punte più elevate, il 23% e il 26%, in seno al comparto della moda e a quello della chimica.I dati non sono comparabili con altre regioni o con il dato nazionale e dunque impediscono di comprendere se il tono muscolare dell’apparato produttivo dell’Umbria è messo meglio o è più rilassato di quello medio italiano. Comunque, la mancanza di paletti di riferimento lascia più libertà nel collegare tra loro le indicazioni di cui si dispone.

Per l’aspetto rinnovamento dell’imprenditorialità l’analisi sembra conformarsi alla precedente nel lanciare il messaggio che forse si può fare di più. Sappiamo, infatti, che la normativa italiana ha da non molto introdotto delle semplificazioni pensate per aiutare a realizzare il sogno di diventare imprenditori. Nel complesso, sono stati oltre diecimila i giovani di meno di 35 anni che, nel corso del 2013, hanno colto al volo l’opportunità offerta dai provvedimenti legislativi (legge 24 marzo 2012, n. 27) e pertanto hanno portato a battesimo le cosiddette “Srl a un euro”, ovvero le società a responsabilità limitata semplificate.

In virtù della norma, divenuta pienamente operativa dal 29 agosto 2012, gli under 35 hanno avuto la possibilità di costituire un’impresa con un capitale sociale inferiore ai 10.000 euro e senza pagare le spese notarili, i diritti di segreteria dovuti alla Camera di commercio e l’imposta di bollo. Tuttavia, mentre in Italia le iscrizioni in questa specifica categoria (cioè: società a responsabilità limitata semplificata) da parte di titolari con meno di 35 anni sono state il 53,6% del totale sì che il corrispondente stock di imprese semplificate registrate si è mantenuto al 58,5% l’Umbria si è tenuta a distanza di cinque punti percentuali: fermandosi al 48% (contro 53,6%) per le iscrizioni e al 53,0% (contro 58,5%) per lo stock complessivo (incidenza di imprese under 35 sul totale delle semplificate registrate).

Anche sotto questo aspetto, pertanto, i dati rendono l’idea di quanto il 2013 sia stato pesante per l’Umbria: in totale, infatti, sappiamo che le imprese registrate guidate da giovani rappresentano il 9,6%; un valore solo di poco inferiore a quello delle regioni del Centro (10%) e non lontano da quello complessivo del Paese (10,8%). Si può pertanto concludere che tale leggero gap può tranquillamente essere associato al minor entusiasmo giovanile nell’accettare la sfida posta dall’agevolazione normativa prevista dalla legge n. 27. Con qualche iscrizione in più favorita dalle opportunità della semplificazione amministrativa, infatti, l’allineamento alla media nazionale sarebbe stato di fatto completo.

D’altra parte, l’aumento del numero di liquidazioni, fallimenti e ricorsi a procedure concorsuali non stempera il quadro delle difficoltà che si sono proiettate fino a includere il IV trimestre del 2013 nonostante la recente leggera ripresa delle iscrizioni nei registri camerali.Qualche mese addietro, presentando alla stampa gli “Scenari territoriali” di Unioncamere e Prometeia, i quali indicano per l’Umbria un ritorno alla crescita nel 2014 (con un incremento del PIL dell’0,8%), il Presidente di Unioncamere Umbria Giorgio Mencaroni ha rivolto all’opinione pubblica un invito alla cautela. Ha infatti sottolineato il fatto che “nel 2014 usciremo dalla recessione, ma forse non dalla crisi, che continuerà a produrre i suoi effetti anche per i prossimi 12 mesi … E sarà la domanda estera a giocare un ruolo importante nell’incoraggiare la ripresa regionale.”

Ci troviamo dunque di fronte a quello che il presidente di Unioncamere Umbria Giorgio Mencaroni ha ricordato essere inequivocabilmente poco più di un “superamento tecnico della recessione”. Per andare oltre quello spunto siamo convinti che sia essenziale battere entrambe le strade sopra ricordate: quella di una più robusta disponibilità a investire e quella del coinvolgimento di un numero crescente di giovani aspiranti imprenditori. Altrimenti si rischia di andare ben oltre la soglia dell’emergenza. Il cruscotto statistico di Unioncamere Umbria ci ricorda, come si è già detto, che il panel delle imprese attive tanto nel quarto trimestre del 2013 quanto nel corrispondente trimestre dell’anno precedente (2012) – un gruppo di quasi 55 mila imprese – segnala una perdita di occupazione (- 4,4%) più grave di quella (- 3,4%) registrata su scala nazionale e ci fa anche capire quanto il deludente risultato, da addebitare prevalentemente al venire meno delle micro imprese, possa essere associato all’appiattimento degli indici di vitalità imprenditoriale.

Pertanto, una scossa energica, che provenga o meno dal riconoscimento di una parte del territorio regionale come area di crisi complessa oppure derivi da una rinnovata attitudine allo svolgimento di attività imprenditoriali o anche da una significativa estensione delle presenze sui mercati esteri sarà per lo meno salutare, se non proprio provvidenziale.

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