N° 24480 - 17/04/2014 20:57 - Stampa - -
DISCUSSIONE DELLA SETTIMANA
“Formazione continua” foglia di fico per una crisi nera
Si chiama “formazione continua” e obbliga tutti gli iscritti ad albi professionali a rimettersi sui banchi per accumulare crediti formativi, come all’università.Debbono cioè frequentare corsi o partecipare a seminari, ma soltanto a quelli accreditati dagli Ordini (e l’iter di accreditamento non è dei più soft, anche perché richiede un contributo economico). Molte di queste attività formative sono inoltre a pagamento. In altre c’è l’obbligo di acquistare volumi. Obiettivo finale: accumulare 60 crediti in tre anni, di cui 15 su questioni deontologiche.
Un obbligo di legge – promosso dal governo Monti (Dpr 137/2012) ma dopo incontri con gli organismi settoriali – che include anche i giornalisti, o perlomeno gli iscritti all’Ordine dei giornalisti (laddove le decine di migliaia di “pubblicisti” possono anche svolgere altri mestieri), che sono globalmente oltre 100mila in Italia. Una situazione che oltre ad alimentare malumori e proteste, specie in questo periodo di recessione, sta mettendo in crisi la macchina organizzativa.
In un periodo di grave disfacimento del comparto editoriale, che coinvolge anche le testate del terzo settore già falcidiate dalle riduzioni delle agevolazioni postali, la risposta dall’alto è quella di appesantire il carico degli operatori del settore con iniziative formative spesso discutibili. Come quella svoltasi qualche giorno fa presso la Commissione europea a Roma, interlocutori due europarlamentari, di cui uno ha lasciato la sala con due ore di anticipo rispetto ai tempi previsti a causa “dell’assemblea nazionale del suo partito”. Il seminario sull’Europa ha fornito come dati più recenti sulla povertà quelli del 2012, mentre l’Istat ha divulgato gli ultimi ad inizio 2014. Di altre iniziative è scarsa la promozione. Per altre è stato chiesto l’obbligo di iscrizione ad un sindacato del settore, obbligo poi ritirato. In tutto ciò l’Ordine, finanziato con i soldi degli iscritti, sta investendo ingenti risorse, come ha precisato il presidente Iacopino in una lettera di presentazione dell’iniziativa a dicembre scorso.
Però, ad onor del vero, chiudere in un’aula un giornalista è decisamente in antitesi rispetto a ciò che hanno sempre predicato i maestri del mestiere: “cucina redazionale” all’interno di una testata e scarpe da ginnastica per andare a caccia di notizie. Ma da qualche anno la logica s’è capovolta e le onerose scuole per accedere al praticantato si sono moltiplicate a dismisura rispetto alle quattro originarie. Inoltre è stato ormai di fatto superato l’obbligo di svolgere il praticantato in una redazione qualificata e con più professionisti, come richiede la legge: l’orientamento più recente è il riconoscimento “di fatto” del periodo di apprendistato o il “ricongiungimento” con corsi di formazione da 250 euro.
Nel contempo, però, gli organi del settore hanno scoperto una febbrile attività nel partorire carte deontologiche e nel dar vita ad iniziative formative. Mentre il comparto sprofonda in una crisi drammatica e senza precedenti, non soltanto quantitativa ma anche qualitativa. E a ben poco possono servire gli aggiornamenti professionali imposti tramite le sole attività certificate: per quale motivo dovrebbe essere migliore un corso di lingue con “il bollino” dell’Ordine rispetto ad uno del British? O perché un corso sulla deontologia di pari ore a Benevento rilascia quattro crediti e a Nola dieci? Inoltre, benché variegata, può una formazione coprire gli infiniti settori in cui sono specializzati i giornalisti? E ancora: quale vantaggio competitivo può dare la formazione nel momento in cui tutti i giornalisti sono obbligati a seguirla?
Per la cronaca, gli argomenti proposti dall’Ordine pugliese, ad esempio, vanno da “Giornalismo e musica internazionale” a “Dal dolore al diabete, la medicina specialistica nella stampa generalista”, da “Donne in cartiera” a “Infertilità e ambiente, il ruolo dei mass media”.
Mentre agli operatori del settore, ormai in maggioranza lavoratori autonomi, si sottrae tempo prezioso per questo genere di attività (compresi i “comizi” degli europarlamentari che garantiscono crediti), l’editoria ha perso ben 1.660 posti di lavoro negli ultimi cinque anni. Secondo i drammatici dati della Fieg, la federazione della stampa, nel 2013 le vendite dei quotidiani sono scese del 10,3 per cento e i ricavi da inserzioni addirittura del 19,4 per cento. Non è andata meglio ai periodici: meno 9,8 per cento in edicola, meno 24,5 per cento di ricavi pubblicitari. Gli editori, giocoforza, rispondono tagliando le redazioni e non assumendo più. La situazione della Rcs è emblematica, ma anche al Sole 24 Ore non si naviga in buone acque. La cassa integrazione e i contratti di solidarietà sono ormai la regola in molte aziende editoriali.
Il trend, tra l’altro, è sempre più accentuato. Il fatturato degli editori di quotidiani è sceso del 2,1 per cento nel 2011, del 9,9 per cento nel 2012, fino a crollare dell’11,1 per cento nel 2013. Colpa soprattutto del calo della pubblicità. Nonostante i contributi per l’editoria, nel 2012 soltanto sedici aziende risultavano in utile, contro 35 che hanno chiuso i bilanci in rosso subendo perdite complessive per 149,4 milioni (l’anno prima per 66,6 milioni).
I lettori di quotidiani sono oggi poco più di 20 milioni rispetto ai 25 milioni del 2011. Per i periodici s’è passati in appena due anni da 33 a poco più di 28 milioni.
In controtendenza, ma flebile, l’on-line: i lettori di testate quotidiane sono passati da 2,7 a 3,7 milioni in due anni.
L’effetto di questa situazione drammatica lo stanno pagando soprattutto i giornalisti: tra il 2009 e il 2013, secondo i dati Fieg, ne sono rimasti a spasso 887 dei quotidiani e 638 dei periodici. Si è più che dimezzato (da 173 a 75) il numero dei praticanti, da cui la necessità di ricorrere ai praticantati d’ufficio soprattutto per non dare contraccolpi alle casse previdenziali.